Dicono di Nino Ventura
D
Questo è Nino.rnIl suo bisogno di fare è necessità primaria, come mangiare, bere, dormire. E la scultura, verso la quale ha indirizzato principalmente il suo interesse nell'arco di questi ultimi dieci anni, non è che un'ulteriore tappa, sicuramente non il suo punto d'arrivo. Fidatevi! Lo conosco molto bene. Al punto tale che da anni, ormai, ho accantonato la presunzione di farlo cambiare.rnMacineremo chilometri e chilometri su e giù per l'Italia e in chissà quale altra parte del mondo. rnLui è così: non viaggia per spostarsi da una parte all'altra, ma viaggia per viaggiare, pur detestando le vacanze (se per vacanze si intendono relax e inattività).rnL'inattività, appunto, lo spaventa: è come se temesse di non avere il tempo per finire tutto ciò che ha iniziato o che deve ancora fare.rnE quindi si affretta, dimentica di mangiare, di bere, di dormire e crea.rnCrea con tutti i materiali a disposizione, non importa se si tratta di: argilla, pietra, ferro, rafia, legno, corda, marmo, in un'affannosa ricerca per migliorarsi ed elevarsi sempre più.rnLui è fatto così. Come quella volta che, costretto a casa da una bruttissima influenza (una banale influenza non lo ferma), mi ha mandato a comprare due pani di argilla e quindi, da perfetto autodidatta, ha deciso di modellare. I suoi primi pesci, nove anni fa, sono nati da un'influenza. L'avreste mai detto' rnMa il guaio è che c'è riuscito ed ha continuato, e il frutto di quell'influenza è là, sotto i vostri occhi. rnPian piano i pesciolini sono diventati pesci. Pesci trafitti, appesi, sospesi, afflosciati, straziati. I pesci si sono moltiplicati in moduli, divisi in sezioni, addizionati di orpelli, sottratti alla vista o anche solo evocati. Poi sono arrivate le sirene: così eteree eppure così pesanti (ve lo garantisco!) e poi ancora gli Angeli, dalle ali goffe e dai piedi enormi, così umanamente ancorati al terreno.rnAnche SAKANA' è là: la sua prima opera in marmo, in marmo bianco, nata da una settimana di permanenza a Carrara, ospite nello studio di uno scultore \"Vero\" che, vedendo un prodotto finito già al primo tentativo, da buon toscano, ha esclamato: \"... però, l'hai fatto il pupazzo!\"rnPoco tempo fa, durante un'altra visita a Carrara, in occasione della biennale di scultura, ho visto una luce nei suoi occhi, quella luce che ormai ben conosco e che mi preoccupa sempre un po': riflesse nelle sue pupille c'erano imponenti sculture in marmo bianco. Grandi...più grandi dei pesci... più grandi delle sirene... più grandi degli angeli... enormi... Aiuto!rnDate retta a me, che ho condiviso con lui quasi ventidue anni della mia vita: se si è messo in testa di fare delle sculture in marmo alte dieci, dodici e più metri, le farà. Certo che le farà!
Mi occupo, come critico e promoter, esclusivamente, e quasi, di scultura, da circa trent'anni; ho avuto e ho fruttuosi sodalizi con grandi artisti, come Pietro Cascella, per esempio, e Giò Pomodoro. Ho avuto curiosità e attenzione per tutti i movimenti che si sono susseguiti, dalla "non arte" alla "land art", dai concettuali agli strutturalisti, dai comportamentisti ai costruttivisti, dai citazionisti ai neomanieristi. Dico ciò non per sfoggiare conoscenza e competenza (qualità che non ho e rifiuto), ma per far presente la mia curiosità continua e per me vitalizzante e la mia attenzione. Ebbene: in Nino Ventura, artista e personaggio, riconosco colui che avrei voluto essere, se fossi stato creativo poliedrico come lui: scultore in quel suo modo e attore e inventore di operazioni teatrali multiple in un "mix" che non è coacervo, ma armonia. Leggo nelle sue biografie che l'operatore culturale (teatro, cinema, musica, performance varie), vitalizzante, entusiastico, ma nache pratico, anche maneger, è venuto prima. Non che l'artista sonnecchiasse in lui; solo che è esploso al momento giusto, dopo tutti quegli "ismi" di cui ho parlato sopra.
E allora ecco questa mostra che viene dopo l'altra in tutta Italia, ecco questa scelte non caotiche come si poteva temere da un sano eclettismo, ma precise nei materiali, nelle intenzioni, negli esiti plastici. Precise come chi è padrone del mezzo espressivo, ma non tanto da rischiare la perdita dell'ispirazione, della spontaneità, della naturalezza della creazione. Diciamo subito che sbaglierebbe colui che sospettasse una programmazione e una rigidità di contenuti, di materiale e di tecnica, anche se il sospetto è provocato dall'autore stesso: la quasi unicità del soggetto (i pesci) e del materiale (la terracotta) potrebbe far pensare a una ripetitività. Ma nell'ambito di questo quasi unico contenuto (il pesce) e di questo uso del più docile e carezzevole elemento, la creta, quanti significati e quanti significanti, quante allegorie e bizzarrie e fantasie e quanta simbologia e quanti incastri e incastonamenti di altri elementi e di altri colori! Niente a che vedere con terracottisti e ceramisti anche di grande valore, ma votati solo alla creta, anche colorata e brillante! Nino Ventura inserisce (e accompagna) nella terracotta, la sabbia, il cuoio, la lava, il vetro, il silicone, la plastica, le conchiglie, la corda, i chiodi, i pigmenti naturali. Onde il distacco dalla schiavità ancestrale. E i pesci hanno sagome irreali e surreali, guizzano o boccheggiano o muoiono o sono 'altro': altri animali ittici e terrestri con allusioni antropomorfiche. Quindi: l'universo marino e terrestre umano.
Suggestioni archeologiche di un nato in Sicilia, maturato in varie regioni, stabilito in Piemonte' Anche. Ma forse anticipazioni del futuro imminente. Quei pesci, quelle forme, quelle "informità", quel o quei colori, siamo noi, di fine millennio, noi.
E allora ecco questa mostra che viene dopo l'altra in tutta Italia, ecco questa scelte non caotiche come si poteva temere da un sano eclettismo, ma precise nei materiali, nelle intenzioni, negli esiti plastici. Precise come chi è padrone del mezzo espressivo, ma non tanto da rischiare la perdita dell'ispirazione, della spontaneità, della naturalezza della creazione. Diciamo subito che sbaglierebbe colui che sospettasse una programmazione e una rigidità di contenuti, di materiale e di tecnica, anche se il sospetto è provocato dall'autore stesso: la quasi unicità del soggetto (i pesci) e del materiale (la terracotta) potrebbe far pensare a una ripetitività. Ma nell'ambito di questo quasi unico contenuto (il pesce) e di questo uso del più docile e carezzevole elemento, la creta, quanti significati e quanti significanti, quante allegorie e bizzarrie e fantasie e quanta simbologia e quanti incastri e incastonamenti di altri elementi e di altri colori! Niente a che vedere con terracottisti e ceramisti anche di grande valore, ma votati solo alla creta, anche colorata e brillante! Nino Ventura inserisce (e accompagna) nella terracotta, la sabbia, il cuoio, la lava, il vetro, il silicone, la plastica, le conchiglie, la corda, i chiodi, i pigmenti naturali. Onde il distacco dalla schiavità ancestrale. E i pesci hanno sagome irreali e surreali, guizzano o boccheggiano o muoiono o sono 'altro': altri animali ittici e terrestri con allusioni antropomorfiche. Quindi: l'universo marino e terrestre umano.
Suggestioni archeologiche di un nato in Sicilia, maturato in varie regioni, stabilito in Piemonte' Anche. Ma forse anticipazioni del futuro imminente. Quei pesci, quelle forme, quelle "informità", quel o quei colori, siamo noi, di fine millennio, noi.
Tutto ciò che è temporale, prima o poi, diventa spaziale e tutto ciò che è spaziale, prima o poi, deve sparire.
Il mondo spaziale è un continuo ostacolo: pareti, porte, tavoli, sedie, case, monti, alberi, palazzi e persino le persone più amate, perchè anch'esse occupano uno spazio fisico sensibile che non puoi oltrepassare.
Lo stesso fenomeno ha luogo con le opere d'arte. Alcune, la stragrande maggioranza, occupano solamente uno spazio morto, mentre altre più che temporali direi che sono a-temporali ed è questa la sensazione che sento, dico sento perchè un'opera d'arte non va pensata ma va solo sentita, guardando queste nuove sculture di Nino Ventura. Potrebbero essere state concepite quattromila anni prima di Cristo o duemila anni dopo Cristo: sintesi dell'essere umano, in parte armonica e in parte disarmonica, di tutta la natura che ci circonda.
Definire un artista sarebbe come ucciderlo. Ciò che posso dire è che la creatività di Nino Ventura è creatività morale, è dolore pietrificato.
Le mie percezioni sono che le pressioni che hanno mosso tutto il processo creativo dello scultore si sono materializzate e obiettivate in opere che non appartengono più al solo autore...
...e come dice Amleto: "Il resto è solo silenzio".
Il mondo spaziale è un continuo ostacolo: pareti, porte, tavoli, sedie, case, monti, alberi, palazzi e persino le persone più amate, perchè anch'esse occupano uno spazio fisico sensibile che non puoi oltrepassare.
Lo stesso fenomeno ha luogo con le opere d'arte. Alcune, la stragrande maggioranza, occupano solamente uno spazio morto, mentre altre più che temporali direi che sono a-temporali ed è questa la sensazione che sento, dico sento perchè un'opera d'arte non va pensata ma va solo sentita, guardando queste nuove sculture di Nino Ventura. Potrebbero essere state concepite quattromila anni prima di Cristo o duemila anni dopo Cristo: sintesi dell'essere umano, in parte armonica e in parte disarmonica, di tutta la natura che ci circonda.
Definire un artista sarebbe come ucciderlo. Ciò che posso dire è che la creatività di Nino Ventura è creatività morale, è dolore pietrificato.
Le mie percezioni sono che le pressioni che hanno mosso tutto il processo creativo dello scultore si sono materializzate e obiettivate in opere che non appartengono più al solo autore...
...e come dice Amleto: "Il resto è solo silenzio".
Il percorso di Nino Ventura appartiene agli stati dell'anima, alla materia delle sue sculture, al Mediterraneo e a quella terra in cui la luce "scopre" reperti di civiltà millenarie, fondali inesplorati, versi antichi e intensamente riletti da Salvatore Quasimodo.
E' così nella poesia di Praxilla si avverte tutto il fascino di una natura rivisitata, di un universo attraversato da delicatissimi incantesimi, di una parola che si fa memoria del tempo e dal tempo emerge inconfondibile la stagione espressiva di Ventura.
La recente mostra a San Sebastiano da Po, gli "Angeli - Evoluzione della Specie" entrati a far parte della collezione del Museo de los Angeles di Lucia Bosè a Turegano, in Spagna, gli aspetti di un linguaggio che si muove tra una evocativa figurazione e composizioni astratto-materiche, concorrono a delineare l'essenza di una ricerca in continua espansione, di una intrinseca volontà di fissare gli elementi di un discorso segnato dal fluire inarrestabile della storia, dall'avventura del giorno che si apre nella luce dell'alba dalla plastica evidenza di un modellato scandito nello spazio atmosferico.
Ventura affida, quindi, alla rappresentazione la propria dimensione umana, trascrive i segni indelebili di "una forma che si ripete all'infinito e non è mai la stessa, una spirale che contiene il mare".
E dall'acqua affiorano i suoi simbolici pesci, i pannelli in terracotta e legno, le figure del "Trittico del Mediterraneo", i vasi antropomorfi e il bronzo "Ekunus. Ekuma", in una sorta di itinerario che va al di là della realtà per entrare nella sfera del sogno, della memoria, delle emozioni più profonde e nascoste.
Vi è nell'opera di Ventura il mistero della vita, dell'alternarsi delle stagioni, dei silenzi dell'anima, ma vi è anche "il bisogno di ripartire della materia. Dalla concretezza della forma. Voglio misurarmi con l'abilità, con la tecnica, con il lavoro ed il sudore. Ho la necessità di dare forma alla idee".
Le idee diventano sculture e pannelli, frammenti di identità e graffiti, tessere musive e pilastre, dove l'accensione dei colori, la terra rossa di Castellamonte, il marmo bianco di Carrara, appaiono come gli insostituibili mezzi per comunicare, per trasmettere, per disseminare la misura di un dire che non si abbandona a inutili fraseggi compositivi, ma tutto sembra ampliarsi nell'atmosfera secondo un rigoroso controllo mentale, una musicalità che deriva dall'onirico rappresentarsi della magia dell'esistere.
E' così nella poesia di Praxilla si avverte tutto il fascino di una natura rivisitata, di un universo attraversato da delicatissimi incantesimi, di una parola che si fa memoria del tempo e dal tempo emerge inconfondibile la stagione espressiva di Ventura.
La recente mostra a San Sebastiano da Po, gli "Angeli - Evoluzione della Specie" entrati a far parte della collezione del Museo de los Angeles di Lucia Bosè a Turegano, in Spagna, gli aspetti di un linguaggio che si muove tra una evocativa figurazione e composizioni astratto-materiche, concorrono a delineare l'essenza di una ricerca in continua espansione, di una intrinseca volontà di fissare gli elementi di un discorso segnato dal fluire inarrestabile della storia, dall'avventura del giorno che si apre nella luce dell'alba dalla plastica evidenza di un modellato scandito nello spazio atmosferico.
Ventura affida, quindi, alla rappresentazione la propria dimensione umana, trascrive i segni indelebili di "una forma che si ripete all'infinito e non è mai la stessa, una spirale che contiene il mare".
E dall'acqua affiorano i suoi simbolici pesci, i pannelli in terracotta e legno, le figure del "Trittico del Mediterraneo", i vasi antropomorfi e il bronzo "Ekunus. Ekuma", in una sorta di itinerario che va al di là della realtà per entrare nella sfera del sogno, della memoria, delle emozioni più profonde e nascoste.
Vi è nell'opera di Ventura il mistero della vita, dell'alternarsi delle stagioni, dei silenzi dell'anima, ma vi è anche "il bisogno di ripartire della materia. Dalla concretezza della forma. Voglio misurarmi con l'abilità, con la tecnica, con il lavoro ed il sudore. Ho la necessità di dare forma alla idee".
Le idee diventano sculture e pannelli, frammenti di identità e graffiti, tessere musive e pilastre, dove l'accensione dei colori, la terra rossa di Castellamonte, il marmo bianco di Carrara, appaiono come gli insostituibili mezzi per comunicare, per trasmettere, per disseminare la misura di un dire che non si abbandona a inutili fraseggi compositivi, ma tutto sembra ampliarsi nell'atmosfera secondo un rigoroso controllo mentale, una musicalità che deriva dall'onirico rappresentarsi della magia dell'esistere.
Sono ora alle pareti, questi reperti appena liberati dalla terra che li ha celati per secoli alla vista dell'uomo.
Si mostrano portatori di segni di grande modernità e tradotti porterebbero rivelazioni sull'evoluzione della specie umana.
Interessante lasciarli suggerire, nella ritmata composizione grafica, storie comuni alla civiltà mediterranea.
Questa sussurrata familiarità tra uomo e pesce diventa chiaramente leggibile nella forma armonica ed essenziale di Sakanà, bronzo nero nato dallo splendido esemplare ricavato nel marmo di Carrara.
I materiali che Nino Ventura combina sapientemente sono quelli che, fin dalle origini, l'uomo impiega per tramandare sapere, pensiero ed immagini, con un gusto artistico che ha le basi nella conoscenza degli elementi che lo circondano.
La terra, quella rossa di Castellamonte, si combina con il bronzo, il legno, la lava, le sabbie marine, i pigmenti e gli smalti, generando sensazioni e raccontando storie di epoche lontane.
Il titolo Mediterraneo terra mia, ha origine da un profondo legame dell'autore con uno spazio geografico che è da sempre culla di civiltà, di scambi, di contaminazioni culturali. Nino Ventura è riuscito ad elaborare un linguaggio universalmente comprensibile, nella sua sintesi di linguaggi espressivi che hanno tracciato le rotte del Mediterraneo facendone quel ricchissimo tessuto di culture che è oggi.
Si mostrano portatori di segni di grande modernità e tradotti porterebbero rivelazioni sull'evoluzione della specie umana.
Interessante lasciarli suggerire, nella ritmata composizione grafica, storie comuni alla civiltà mediterranea.
Questa sussurrata familiarità tra uomo e pesce diventa chiaramente leggibile nella forma armonica ed essenziale di Sakanà, bronzo nero nato dallo splendido esemplare ricavato nel marmo di Carrara.
I materiali che Nino Ventura combina sapientemente sono quelli che, fin dalle origini, l'uomo impiega per tramandare sapere, pensiero ed immagini, con un gusto artistico che ha le basi nella conoscenza degli elementi che lo circondano.
La terra, quella rossa di Castellamonte, si combina con il bronzo, il legno, la lava, le sabbie marine, i pigmenti e gli smalti, generando sensazioni e raccontando storie di epoche lontane.
Il titolo Mediterraneo terra mia, ha origine da un profondo legame dell'autore con uno spazio geografico che è da sempre culla di civiltà, di scambi, di contaminazioni culturali. Nino Ventura è riuscito ad elaborare un linguaggio universalmente comprensibile, nella sua sintesi di linguaggi espressivi che hanno tracciato le rotte del Mediterraneo facendone quel ricchissimo tessuto di culture che è oggi.
I PESCI
Dagli oggetti d'impasto di qualche antica civiltà mediterranea ai vasi in cristallo di rocca fantasiosamente incisi dai milanesi Sarachi nel tardo Cinquecento, fino alla levigata astrazione di Brancusi, e oltre... Scrivere sulla fortuna dei pesci nelle arti plastiche sarebbe un'impresa intricata quanto stimolante.
Il legame profondo con l'elemento acqua, la quasi inesauribile varietà delle forme e la libertà di movimenti (guizzante, fluttuante, a zig-zag), fanno dei pesci una immagine vitale, una rappresentazione del trasmutare delle dimensioni di tempo e di spazio.
Non mi sembra azzardato dire che nelle sue creazioni plastiche Nino Ventura tiene fede a una vocazione ludica, squisitamente teatrale.
Andando oltre la semplice interpretazione estrosa del dato di natura, questi pesci "recitano" lo spazio pendendo a grappoli dal soffitto e volgendosi a varie altezze e in varie direzioni, si afflosciano a terra e boccheggiano in un laghetto di sabbia, si ergono come totem, navigano il piano verticale di una parete o quello orizzontale di una mensola, o emergono fossilizzati da un pannello come traccia di un tempo remoto, bloccato in un eterno accadere.
Alcuni di essi mimano la funzione di candelieri consunti, altri di vesciche che si gonfiano o si comprimono, attraversate dall'aria come da un liquido invisibile.
Tutti, nel loro silenzio abissale, tessono monologhi ora tragici ora giocosi con il proprio corpo di creta essiccata, cuoio, sabbia: materiali concreti, naturali e primari, che incarnano le infinite apparenze del dileguante.
MEDITERRANEO
Il Mediterraneo amato da Nino Ventura non è la culla della Classicità - scritta così, con la "C" maiuscola -, né la tomba di un linguaggio figurativo ormai defunto; è, piuttosto, un crogiolo di razze e civiltà che nel corso dei millenni - fino ad oggi - si sono scontrate e amalgamate con esiti spesso imprevedibili, sempre preziosi.
L'amalgama di estro e progettualità, di tecnica manuale ed esuberanza espressiva che affascina nelle terrecotte e nelle opere di questo artista deriva, in parte, dal fatto che egli si misura con una "tradizione mediterranea" reinventata con spregiudicatezza, al di là di ogni atteggiamento nostalgico e di ogni pedanteria.
Il segno del pesce - senza fine iterato e variato nel materiale duttile e povero per eccellenza, l'argilla - è assunto da Ventura come simbolo del Bacino Mediterraneo e - più in generale - del mare, dell'elemento acquatico...
...ordine e disordine non si oppongono rigidamente nel lavoro di Ventura, ma si combinano a sorpresa, con ragionato capriccio, grazie anche alle risorse di una tecnica così splendidamente imprecisa come quella del plasticatore che modella l'argilla con i polpastrelli nudi...
Dagli oggetti d'impasto di qualche antica civiltà mediterranea ai vasi in cristallo di rocca fantasiosamente incisi dai milanesi Sarachi nel tardo Cinquecento, fino alla levigata astrazione di Brancusi, e oltre... Scrivere sulla fortuna dei pesci nelle arti plastiche sarebbe un'impresa intricata quanto stimolante.
Il legame profondo con l'elemento acqua, la quasi inesauribile varietà delle forme e la libertà di movimenti (guizzante, fluttuante, a zig-zag), fanno dei pesci una immagine vitale, una rappresentazione del trasmutare delle dimensioni di tempo e di spazio.
Non mi sembra azzardato dire che nelle sue creazioni plastiche Nino Ventura tiene fede a una vocazione ludica, squisitamente teatrale.
Andando oltre la semplice interpretazione estrosa del dato di natura, questi pesci "recitano" lo spazio pendendo a grappoli dal soffitto e volgendosi a varie altezze e in varie direzioni, si afflosciano a terra e boccheggiano in un laghetto di sabbia, si ergono come totem, navigano il piano verticale di una parete o quello orizzontale di una mensola, o emergono fossilizzati da un pannello come traccia di un tempo remoto, bloccato in un eterno accadere.
Alcuni di essi mimano la funzione di candelieri consunti, altri di vesciche che si gonfiano o si comprimono, attraversate dall'aria come da un liquido invisibile.
Tutti, nel loro silenzio abissale, tessono monologhi ora tragici ora giocosi con il proprio corpo di creta essiccata, cuoio, sabbia: materiali concreti, naturali e primari, che incarnano le infinite apparenze del dileguante.
MEDITERRANEO
Il Mediterraneo amato da Nino Ventura non è la culla della Classicità - scritta così, con la "C" maiuscola -, né la tomba di un linguaggio figurativo ormai defunto; è, piuttosto, un crogiolo di razze e civiltà che nel corso dei millenni - fino ad oggi - si sono scontrate e amalgamate con esiti spesso imprevedibili, sempre preziosi.
L'amalgama di estro e progettualità, di tecnica manuale ed esuberanza espressiva che affascina nelle terrecotte e nelle opere di questo artista deriva, in parte, dal fatto che egli si misura con una "tradizione mediterranea" reinventata con spregiudicatezza, al di là di ogni atteggiamento nostalgico e di ogni pedanteria.
Il segno del pesce - senza fine iterato e variato nel materiale duttile e povero per eccellenza, l'argilla - è assunto da Ventura come simbolo del Bacino Mediterraneo e - più in generale - del mare, dell'elemento acquatico...
...ordine e disordine non si oppongono rigidamente nel lavoro di Ventura, ma si combinano a sorpresa, con ragionato capriccio, grazie anche alle risorse di una tecnica così splendidamente imprecisa come quella del plasticatore che modella l'argilla con i polpastrelli nudi...
Figure che abitano la storia della civiltà mediterranea, che riescono ad essere attuali e moderne conservando l'autorità di tracce arcaiche di popoli dimenticati. Suggestioni che si provano affrontando il percorso attraverso il lavoro di Nino Ventura, che in questi anni ricchi di mostre e incontri ha costruito un mondo riconoscibile ma allo stesso tempo sempre capace di stupirci con l'invenzione. Caratteri, la riconoscibilità e l'invenzione, che solo nel racconto si trovano in disaccordo. L'occhio - che non ha bisogno di mediazioni - facilmente coglie questa contemporanea e felice convivenza. La riconoscibilità immediata della mano è suggerita da elementi ricorrenti che hanno attraversato una produzione artistica complessa come alfabeto di una lingua. Allora i pesci, primi protagonisti delle mostre di Nino Ventura, compaiono oggi come gioielli a decoro di imponenti sculture, come volute di panneggio di morbidissimi marmi di Carrara, come elementi di ritmo in pannelli in cui alla ceramica vengono abbinati mezzi più contemporanei quali le resine. Ma la presenza di questi segnali visivi non fa mai pensare al ripetersi di un'opera, perché ogni personaggio nasce all'interno di un progetto, di un gruppo che non verrà mai più ripetuto, per una mostra che è solo una tappa di una percorso più lungo. Le citazioni di moduli e di proprie sculture meno recenti, quando si verificano, hanno l'ironia di rimescolare le carte, di ricordare ribaltando, di andare in controtendenza rispetto alle pratiche consuete del mondo dell'arte che oggi preferisce una certa serialità. I materiali con cui Ventura si confronta ogni giorno sono l'argilla di Castellamonte - che oggi lascia spazio anche a sperimentazioni con refrattari scuri o terre bianche dalla superficie meno aggressiva - il bronzo, il marmo, le resine, che si integrano sapientemente tra le mani dello scultore. I bronzi più recenti portano ancora alcuni tratti della fisionomia dei dodici angeli che si trovano oggi al museo di Turegano (Segovia, Museo de Los Angeles, collezione Lucia Bosè) ma hanno corpi più leggeri, sinuosi, che non hanno mai velleità figurativa nelle proporzioni - non dovendo essere figure umane ' ma che dimostrano raffinatezza e ricerca nei volti, nelle mani e nelle loro tensioni di movimento. Due figure sedute si contraggono fino a sembrare loro stesse l'oggetto domestico, altre sembrano sul punto di cadere all'indietro, altre sono schiacciate al suolo e altre esili ed eleganti come obelischi. Le superfici sono levigate, con la morbidezza che il bronzo può permettere, e portano patine inconsuete e interessanti. Storie e miti, appartenenti a differenti civiltà, grazie alla mediazione dalla fantasia, creano un mondo organico e affascinante. Storie universali che parlano con semplicità anche a chi non riesca a decodificare la tradizione racchiusa in un nome antico o non senta propria una leggenda. La scoperta fondamentale nella ricerca iconografica che pone le basi per i personaggi creati da Ventura è che i simboli elementari appartengono a tutte le maggiori civiltà, sono una lingua comune a cui si può dare una differente sfumatura ma che non possono creare equivoco o incomprensione. Per questo motivo una mostra di Nino Ventura non è mai inquietante. Ci possono essere tensioni, forme particolari o mai viste prima, ma mai l'inquietudine dettata dalla minaccia, sempre stupore, curiosità o divertimento. Da questo traspare chiaramente la passione di Ventura per un lavoro che è tra i più interessanti al mondo perché è una continua lotta tra la fantasia che non ha limiti e i materiali che continuamente provano a porne, sia dal punto di vista strutturale, che dimensionale e logistico. La possibilità di vedere esposte opere nate in diversi periodi permette di seguire parte di quel filo che collega tutti i lavori già realizzati da Ventura e che crea la curiosità di sapere quale forma avrà il suo prossimo progetto. La forte determinazione artistica di Ventura rilegge in continua evoluzione il proprio linguaggio e quindi una scelta antologica di opere, come quella effettuata per questi spazi, racconta di una creatività esplosiva e mai uguale a se stessa, che dalla mostra del 1991 ad oggi riesce a stupire ogni volta il pubblico affezionato almeno quanto quello che per la prima volta avvicina le sue opere.
L'esercito del piccolo pesce è un baluardo antico, uno sguardo recente al passato appena trascorso che lo scultore Nino Ventura dedica alla terra, agli avi, all'aria e al mare. Dopo tanto viaggiare in un'orbita ellittica tra pesci vicini e uomini lontani, lo scultore siciliano stringe il cerchio e cerca un luogo dove tornare.
E se gli appunti sparsi, le schegge polverose d'argilla non rendono il percorso tracciato fin qui, giova alla storia, alla memoria e al sogno tornare indietro.
Seguire Nino Ventura è come il gioco di pestarsi l'ombra: ogni oggetto visibile, porta dietro in chiaroscuro l'esperienza, il pensiero e la filosofia di chi ha plasmato la materia.
I primi pesci sono arrivati molto tempo fa. Quasi una malattia. Forme in incubazione che un giorno si sono manifestate. Uni e tanti per Ventura i primi pesci erano una sfida nella moltiplicazione laica di una figura senza ricalcare la stessa linea, lo stesso solco nella terra.
E coi primi pesci è nato anche un nuovo alfabeto: stampini come caratteri mobili per scrivere le storie future.
Archeologie sentimentali, spiega Ventura. Come se lo sguardo dei pesci fosse quello di Giano e gli occhi non guardassero mai dalla stessa parte. Stessa direzione, almeno. Stesso verso, mai.
Ma via via il pesce è scivolato lungo i confini della sua figura sfumandosi nella sirena, prima, e nell'uomo, poi.
Pesce-Sirena-Uomo, come Uomo-Angelo-Arcangelo o Argilla-Marmo-Bronzo.
Lettere e numeri, serie di lavori che oggi trovano un ordine cronologico e d'arrivo che possono apparire un artificio o una profezia, ma strada facendo, forse, non avevano ruoli così precisi. E gli episodi ora compiono la storia.
E' un'epica del viaggio attraverso l'acqua.
I Pesci-Sirena e i Pesci-Angeli sono pronti a cambiare cielo e passare dall'acqua all'aria.
L'argilla che assorbe l'energia di chi la plasma rilascia calore al cospetto del fuoco. Si fondono terra e sudore.
Terra e sudore che si fondono e si sedimentano. Strade percorse e orizzonti prossimi si trovano tutti concentrati nel materiale saturo.
Ed è così che oggi arriva l'Esercito del piccolo pesce.
Lo sguardo serafico delle sentinelle resta a vegliare sul piccolo pesce: inizio e fine di un percorso ancora incompleto.
Ventura raccoglie nel segno tridimensionale del suo Sakanà (trad. it. "pesce") il riferimento al principio primo. Il piccolo pesce diventa così il tesoro da difendere e l'isola da trovare. E per alcuni sarà un piccolo Cristo, per altri semplicemente il prezioso e irrinunciabile anelito vitale di altruismo e uguaglianza.
L'esercito in cerchio lascia che il piccolo pesce, come in una bussola, indichi la direzione da percorrere.
"Costruisco un esercito per difendere i valori fondanti che nascono a Occidente, dal bacino del Mediterraneo. E' un esercito non aggressivo ma fiero e consapevole che, ornato di elementi preziosi, circonda e veglia su quanto ci sia di più prezioso" racconta Ventura.
Un esercito tabernacolo, un reliquiario per oggetti che ribadiscono con la loro presenza anche il gesto dell'artigiano. Un gesto per creare e ripetere. Un esercito di copie non multiple pronte a iniziare un nuovo viaggio portandosi nel futuro tutto quanto già visto, già scritto e conquistato.
E se gli appunti sparsi, le schegge polverose d'argilla non rendono il percorso tracciato fin qui, giova alla storia, alla memoria e al sogno tornare indietro.
Seguire Nino Ventura è come il gioco di pestarsi l'ombra: ogni oggetto visibile, porta dietro in chiaroscuro l'esperienza, il pensiero e la filosofia di chi ha plasmato la materia.
I primi pesci sono arrivati molto tempo fa. Quasi una malattia. Forme in incubazione che un giorno si sono manifestate. Uni e tanti per Ventura i primi pesci erano una sfida nella moltiplicazione laica di una figura senza ricalcare la stessa linea, lo stesso solco nella terra.
E coi primi pesci è nato anche un nuovo alfabeto: stampini come caratteri mobili per scrivere le storie future.
Archeologie sentimentali, spiega Ventura. Come se lo sguardo dei pesci fosse quello di Giano e gli occhi non guardassero mai dalla stessa parte. Stessa direzione, almeno. Stesso verso, mai.
Ma via via il pesce è scivolato lungo i confini della sua figura sfumandosi nella sirena, prima, e nell'uomo, poi.
Pesce-Sirena-Uomo, come Uomo-Angelo-Arcangelo o Argilla-Marmo-Bronzo.
Lettere e numeri, serie di lavori che oggi trovano un ordine cronologico e d'arrivo che possono apparire un artificio o una profezia, ma strada facendo, forse, non avevano ruoli così precisi. E gli episodi ora compiono la storia.
E' un'epica del viaggio attraverso l'acqua.
I Pesci-Sirena e i Pesci-Angeli sono pronti a cambiare cielo e passare dall'acqua all'aria.
L'argilla che assorbe l'energia di chi la plasma rilascia calore al cospetto del fuoco. Si fondono terra e sudore.
Terra e sudore che si fondono e si sedimentano. Strade percorse e orizzonti prossimi si trovano tutti concentrati nel materiale saturo.
Ed è così che oggi arriva l'Esercito del piccolo pesce.
Lo sguardo serafico delle sentinelle resta a vegliare sul piccolo pesce: inizio e fine di un percorso ancora incompleto.
Ventura raccoglie nel segno tridimensionale del suo Sakanà (trad. it. "pesce") il riferimento al principio primo. Il piccolo pesce diventa così il tesoro da difendere e l'isola da trovare. E per alcuni sarà un piccolo Cristo, per altri semplicemente il prezioso e irrinunciabile anelito vitale di altruismo e uguaglianza.
L'esercito in cerchio lascia che il piccolo pesce, come in una bussola, indichi la direzione da percorrere.
"Costruisco un esercito per difendere i valori fondanti che nascono a Occidente, dal bacino del Mediterraneo. E' un esercito non aggressivo ma fiero e consapevole che, ornato di elementi preziosi, circonda e veglia su quanto ci sia di più prezioso" racconta Ventura.
Un esercito tabernacolo, un reliquiario per oggetti che ribadiscono con la loro presenza anche il gesto dell'artigiano. Un gesto per creare e ripetere. Un esercito di copie non multiple pronte a iniziare un nuovo viaggio portandosi nel futuro tutto quanto già visto, già scritto e conquistato.
Incontro Nino Ventura nel suo studio alla Cascina Cerello di Chivasso a 15 km. da Torino.
E' qui, immerso nello splendido scenario della campagna piemontese, che Ventura progetta e realizza le sue sculture.
Sculture che in questi anni lo hanno portato in giro per il mondo con grandi soddisfazioni e tanti riconoscimenti. Successi che non gli hanno mai fatto perdere quel senso di umiltà e di familiarità che riesce a trasmettere quando lo si incontra.
E' difficile parlare con lui delle sue opere perché, ci dice, dovrebbero essere in grado di parlare da sole ma, proviamo lo stesso a capire cosa pensa di sé e delle sue creazioni partendo da lontano.
Ti senti più siciliano o piemontese'
Sono nato ad Acireale, in provincia di Catania, nella casa di mia nonna, ma non ho mai abitato in Sicilia.
Mio padre faceva il Carabiniere e lo spostavano su e giù per l'Italia. Quando siamo arrivati a Chivasso nel 1967 avevo 8 anni. Purtroppo mio padre è morto qualche anno dopo e mia madre, che faceva la maestra, ha deciso di rimanere qui.
Decisione difficile, per una donna di 33 anni sola e con due figli ma rivelatasi saggia per il nostro futuro e per questo non mi stancherò mai di ringraziarla.
Per rispondere alla domanda devo dire che mi sento chivassese a tutti gli effetti ma conservo il cuore caldo e tumultuoso del vulcano che mi ha visto nascere.
Ognuno di noi eredita nel proprio patrimonio genetico, oltre alle caratteristiche fisiche e tangibili, un'esperienza ancestrale che è depositata negli strati più profondi del nostro cervello e che, più o meno coscientemente, ritorna in superficie quando ci lasciamo andare alle emozioni ed all'irrazionalità..
Parallelamente all'attività artistica fai anche un altro lavoro, perché'
Anche se ormai a forza di sentirlo dire, sembra un luogo comune, con l'arte, anche quando hai successo, è difficile campare, ancor più, se decidi di avere una famiglia.
Sono tanti ed illustri gli esempi, sia oggi che nel passato. Se è difficile per un pittore sopravvivere, pensate agli scultori. I costi di realizzazione di un lavoro in marmo o in bronzo sono elevatissimi, tant'è che, in mancanza di un committente, spesso gli scultori vivono la frustrazione di progettare la propria opera senza mai poterla realizzare.
Una volta erano le gallerie a sostenere le produzioni dei loro artisti, ora quelle che usano questa politica sono rarissime e molte gallerie si limitano a vendere i propri spazi espositivi a chiunque abbia velleità artistiche e sia in grado di pagare.
Il mio lavoro 'parallelo' è quello di responsabile del Servizio Informazione e Comunicazione del Comune di Chivasso. Un lavoro che mi piace molto anche se non perdo la speranza di potermi dedicare interamente alla scultura.
Comunque, mi sento fortunato perché riesco a realizzare molte delle sculture che progetto anche se, spesso, devo finanziarle con le entrate che arrivano dal mio lavoro di funzionario comunale.
Cosa vuol dire essere artisti'
Non so cosa significhi per gli altri, anche se in alcuni casi mi sono fatto l'idea che sia una sorta di autoterapia, per me è una necessità naturale, incontenibile, primaria, come mangiare, bere, respirare.
In questi ultimi vent'anni ho cambiato il mezzo (teatro, cinema, televisione, scultura) ma ho sempre compiuto lo stesso percorso e fatto la stessa cosa: comunicare con gli altri attraverso le metafore, le storie, le immagini, gli oggetti che, una volta realizzati, superano la loro concretezza e fisicità per dialogare direttamente con l'anima.
Riuscire a fare questo, a trasmettere emozioni e significati che superino le condizioni culturali e sociali dell'osservatore, vuol dire fare dell'arte e, quindi, essere artisti.
Come ti definiresti'
'Lavoratore della terra' oppure 'Genio e regolatezza' o, ancora, 'Barocco siciliano'.
Come giudichi l'attuale sistema dell'arte contemporanea'
Faccio l'artista e non sono uno storico dell'arte, però, se posso esprimere il mio giudizio, credo che stiamo vivendo la favola de 'Il re è nudo'. Tutti pensano che molte delle opere che vengono presentate come sperimentali o innovative siano brutte, inesistenti, sovrastimate ed in molti casi non esistano proprio.
Ma anche i critici, quelli cioè che dovrebbero gridare 'il re è nudo', sono troppo inseriti in questo sistema economico milionario, in cui una fascina, un'impronta di scarpa sul muro, un topo mummificato o un rotolo di carta igienica in una teca di cristallo, sono oggetto di grandi investimenti e di vere e proprie operazioni di marketing.
La provocazione artistica l'ha già fatta egregiamente quel genio di Duchamp, la rivoluzione visiva l'hanno compiuta tanti artisti del novecento per 'colpa' della fotografia e grazie all'arrivo in Europa dell'arte africana. Una rivoluzione fatta al momento giusto, quando ce n'era bisogno, quando aveva un senso, ora ci sono un sacco di inutili replicanti.
Sono convinto che di questo ultimo genere di arte non resterà nulla , anzi il nostro sarà un periodo negativo da citare nei libri scolastici, ma questo è solo il mio umilissimo parere.
Per quanto mi riguarda io credo nella forza dell'opera. In quello che è in grado di comunicare da sola, senza l'ausilio di illuminanti orpelli. Credo nei materiali della nostra cultura, quella mediterranea: il marmo, il bronzo, la terracotta e sono convinto che abbiano ancora molte cose da dire.
Credo nel rapporto strettissimo che lega l'arte all'artigianato. Un rapporto che si basa sulla conoscenza tecnica, sull'abilità e che, in fondo, se non fosse per il fatto che l'artista compie il suo gesto creativo una volta sola e l'artigiano lo ripete più volte, verrebbe a coincidere.
Non sono contento di questa politica di omologazione dell'arte perché ha come effetto quello di riempire i musei di tutto il mondo con lo stesso genere di opere e gli stessi artisti.
Possibile che non esistano altre voci e altre realtà'
Perché quello che ha fatto Slow Food con il cibo non si può fare anche con l'arte'
Le mie radici e la mia ispirazione vengono da quello che mi circonda, dal mar Mediterraneo, dall'arte greca, etrusca, bizantina, romana, dal gotico, dal rinascimento, dal barocco '..
Amo la contaminazioni, le 'differenze', odio l'omologazione la sopraffazione e l'imperialismo culturale.
A proposito di questo, cosa ne pensi di questa tendenza che vede i giovani emergenti sempre più presenti alle fiere d'arte dove vengono istituiti appositi fondi per l'acquisto delle loro opere in musei e fondazioni'
In questo periodo c'è una ricerca spasmodica di nuovi 'Picasso' una nevrosi che probabilmente tende più a soddisfare le ambizioni di qualche collezionista piuttosto che a documentare un cambiamento in atto.
Ad ogni modo, penso che sia giusto cercare, coltivare e promuovere i nuovi talenti, penso, invece, che sia sbagliato e diseducativo illudere i giovani portandoli subito alla ribalta internazionale, abbagliandoli con facili guadagni.
Purtroppo in questo mestiere ci vuole tempo e costanza.
Ora però parliamo del tuo percorso artistico'
Il Teatro è lo strumento che preferisco, penso che sia il più affascinante e completo, ma, purtroppo, non si concilia facilmente con la vita familiare. La scultura mi ha dato la possibilità di gestire in modo più regolare la mia attività artistica senza trascurare Licia e le mie bellissime figlie: Stefania e Alice.
Quando ho iniziato a fare i primi pesci in argilla, era un semplice gioco e lo sarebbe restato se non fossi stato praticamente costretto a 'mostrarli' in una galleria d'arte a Leinì. Da allora i Pesci si sono trasformati in Sirene, le Sirene in Uomini e gli Uomini in Angeli. Mi sono accorto di aver percorso il ciclo della Genesi: ho collegato l'aria con l'acqua, passando dalla terra e dal fuoco. Lavoro d'istinto mi lascio trasportare dalle sensazioni che hanno il sopravvento sulla razionalità del gesto. Poi mi siedo, decodifico quello che ho fatto e rielaboro razionalmente l'opera per completarla. Per questo amo l'argilla, perché è il materiale giusto per modellare 'l'improvviso'.
Il pesce è il legame forte che ho con l'acqua, ma anche il simbolo della vita, il simbolo di Cristo.
In questo momento in cui non sembra interessare a nessuno quello che siamo, sento di dover difendere la mia capacità di costruire, di fare, il nostro mondo, la nostra vita, la mia cristianità e così ho realizzato un mio esercito: 'L'Esercito del Piccolo Pesce'.
Non è un atto di guerra o di ostilità ma di coraggio; il coraggio di essere fieri della propria storia e orgogliosi della propria cultura.
Quello che farò domani non lo so ancora ma, saranno le mie sculture a raccontarlo.
Nino mi saluta con un abbraccio e riprende a caricare il furgone. Il 5 settembre si inaugura la mostra Internazionale della Ceramica a Castellamonte ed il suo Esercito debutta per la prima volta, dopo l'anteprima laziale a Sperlonga, nella nostra regione. Vi consiglio di cuore di andarlo a vedere.
Specialnews - ottobre - novembre 2008
E' qui, immerso nello splendido scenario della campagna piemontese, che Ventura progetta e realizza le sue sculture.
Sculture che in questi anni lo hanno portato in giro per il mondo con grandi soddisfazioni e tanti riconoscimenti. Successi che non gli hanno mai fatto perdere quel senso di umiltà e di familiarità che riesce a trasmettere quando lo si incontra.
E' difficile parlare con lui delle sue opere perché, ci dice, dovrebbero essere in grado di parlare da sole ma, proviamo lo stesso a capire cosa pensa di sé e delle sue creazioni partendo da lontano.
Ti senti più siciliano o piemontese'
Sono nato ad Acireale, in provincia di Catania, nella casa di mia nonna, ma non ho mai abitato in Sicilia.
Mio padre faceva il Carabiniere e lo spostavano su e giù per l'Italia. Quando siamo arrivati a Chivasso nel 1967 avevo 8 anni. Purtroppo mio padre è morto qualche anno dopo e mia madre, che faceva la maestra, ha deciso di rimanere qui.
Decisione difficile, per una donna di 33 anni sola e con due figli ma rivelatasi saggia per il nostro futuro e per questo non mi stancherò mai di ringraziarla.
Per rispondere alla domanda devo dire che mi sento chivassese a tutti gli effetti ma conservo il cuore caldo e tumultuoso del vulcano che mi ha visto nascere.
Ognuno di noi eredita nel proprio patrimonio genetico, oltre alle caratteristiche fisiche e tangibili, un'esperienza ancestrale che è depositata negli strati più profondi del nostro cervello e che, più o meno coscientemente, ritorna in superficie quando ci lasciamo andare alle emozioni ed all'irrazionalità..
Parallelamente all'attività artistica fai anche un altro lavoro, perché'
Anche se ormai a forza di sentirlo dire, sembra un luogo comune, con l'arte, anche quando hai successo, è difficile campare, ancor più, se decidi di avere una famiglia.
Sono tanti ed illustri gli esempi, sia oggi che nel passato. Se è difficile per un pittore sopravvivere, pensate agli scultori. I costi di realizzazione di un lavoro in marmo o in bronzo sono elevatissimi, tant'è che, in mancanza di un committente, spesso gli scultori vivono la frustrazione di progettare la propria opera senza mai poterla realizzare.
Una volta erano le gallerie a sostenere le produzioni dei loro artisti, ora quelle che usano questa politica sono rarissime e molte gallerie si limitano a vendere i propri spazi espositivi a chiunque abbia velleità artistiche e sia in grado di pagare.
Il mio lavoro 'parallelo' è quello di responsabile del Servizio Informazione e Comunicazione del Comune di Chivasso. Un lavoro che mi piace molto anche se non perdo la speranza di potermi dedicare interamente alla scultura.
Comunque, mi sento fortunato perché riesco a realizzare molte delle sculture che progetto anche se, spesso, devo finanziarle con le entrate che arrivano dal mio lavoro di funzionario comunale.
Cosa vuol dire essere artisti'
Non so cosa significhi per gli altri, anche se in alcuni casi mi sono fatto l'idea che sia una sorta di autoterapia, per me è una necessità naturale, incontenibile, primaria, come mangiare, bere, respirare.
In questi ultimi vent'anni ho cambiato il mezzo (teatro, cinema, televisione, scultura) ma ho sempre compiuto lo stesso percorso e fatto la stessa cosa: comunicare con gli altri attraverso le metafore, le storie, le immagini, gli oggetti che, una volta realizzati, superano la loro concretezza e fisicità per dialogare direttamente con l'anima.
Riuscire a fare questo, a trasmettere emozioni e significati che superino le condizioni culturali e sociali dell'osservatore, vuol dire fare dell'arte e, quindi, essere artisti.
Come ti definiresti'
'Lavoratore della terra' oppure 'Genio e regolatezza' o, ancora, 'Barocco siciliano'.
Come giudichi l'attuale sistema dell'arte contemporanea'
Faccio l'artista e non sono uno storico dell'arte, però, se posso esprimere il mio giudizio, credo che stiamo vivendo la favola de 'Il re è nudo'. Tutti pensano che molte delle opere che vengono presentate come sperimentali o innovative siano brutte, inesistenti, sovrastimate ed in molti casi non esistano proprio.
Ma anche i critici, quelli cioè che dovrebbero gridare 'il re è nudo', sono troppo inseriti in questo sistema economico milionario, in cui una fascina, un'impronta di scarpa sul muro, un topo mummificato o un rotolo di carta igienica in una teca di cristallo, sono oggetto di grandi investimenti e di vere e proprie operazioni di marketing.
La provocazione artistica l'ha già fatta egregiamente quel genio di Duchamp, la rivoluzione visiva l'hanno compiuta tanti artisti del novecento per 'colpa' della fotografia e grazie all'arrivo in Europa dell'arte africana. Una rivoluzione fatta al momento giusto, quando ce n'era bisogno, quando aveva un senso, ora ci sono un sacco di inutili replicanti.
Sono convinto che di questo ultimo genere di arte non resterà nulla , anzi il nostro sarà un periodo negativo da citare nei libri scolastici, ma questo è solo il mio umilissimo parere.
Per quanto mi riguarda io credo nella forza dell'opera. In quello che è in grado di comunicare da sola, senza l'ausilio di illuminanti orpelli. Credo nei materiali della nostra cultura, quella mediterranea: il marmo, il bronzo, la terracotta e sono convinto che abbiano ancora molte cose da dire.
Credo nel rapporto strettissimo che lega l'arte all'artigianato. Un rapporto che si basa sulla conoscenza tecnica, sull'abilità e che, in fondo, se non fosse per il fatto che l'artista compie il suo gesto creativo una volta sola e l'artigiano lo ripete più volte, verrebbe a coincidere.
Non sono contento di questa politica di omologazione dell'arte perché ha come effetto quello di riempire i musei di tutto il mondo con lo stesso genere di opere e gli stessi artisti.
Possibile che non esistano altre voci e altre realtà'
Perché quello che ha fatto Slow Food con il cibo non si può fare anche con l'arte'
Le mie radici e la mia ispirazione vengono da quello che mi circonda, dal mar Mediterraneo, dall'arte greca, etrusca, bizantina, romana, dal gotico, dal rinascimento, dal barocco '..
Amo la contaminazioni, le 'differenze', odio l'omologazione la sopraffazione e l'imperialismo culturale.
A proposito di questo, cosa ne pensi di questa tendenza che vede i giovani emergenti sempre più presenti alle fiere d'arte dove vengono istituiti appositi fondi per l'acquisto delle loro opere in musei e fondazioni'
In questo periodo c'è una ricerca spasmodica di nuovi 'Picasso' una nevrosi che probabilmente tende più a soddisfare le ambizioni di qualche collezionista piuttosto che a documentare un cambiamento in atto.
Ad ogni modo, penso che sia giusto cercare, coltivare e promuovere i nuovi talenti, penso, invece, che sia sbagliato e diseducativo illudere i giovani portandoli subito alla ribalta internazionale, abbagliandoli con facili guadagni.
Purtroppo in questo mestiere ci vuole tempo e costanza.
Ora però parliamo del tuo percorso artistico'
Il Teatro è lo strumento che preferisco, penso che sia il più affascinante e completo, ma, purtroppo, non si concilia facilmente con la vita familiare. La scultura mi ha dato la possibilità di gestire in modo più regolare la mia attività artistica senza trascurare Licia e le mie bellissime figlie: Stefania e Alice.
Quando ho iniziato a fare i primi pesci in argilla, era un semplice gioco e lo sarebbe restato se non fossi stato praticamente costretto a 'mostrarli' in una galleria d'arte a Leinì. Da allora i Pesci si sono trasformati in Sirene, le Sirene in Uomini e gli Uomini in Angeli. Mi sono accorto di aver percorso il ciclo della Genesi: ho collegato l'aria con l'acqua, passando dalla terra e dal fuoco. Lavoro d'istinto mi lascio trasportare dalle sensazioni che hanno il sopravvento sulla razionalità del gesto. Poi mi siedo, decodifico quello che ho fatto e rielaboro razionalmente l'opera per completarla. Per questo amo l'argilla, perché è il materiale giusto per modellare 'l'improvviso'.
Il pesce è il legame forte che ho con l'acqua, ma anche il simbolo della vita, il simbolo di Cristo.
In questo momento in cui non sembra interessare a nessuno quello che siamo, sento di dover difendere la mia capacità di costruire, di fare, il nostro mondo, la nostra vita, la mia cristianità e così ho realizzato un mio esercito: 'L'Esercito del Piccolo Pesce'.
Non è un atto di guerra o di ostilità ma di coraggio; il coraggio di essere fieri della propria storia e orgogliosi della propria cultura.
Quello che farò domani non lo so ancora ma, saranno le mie sculture a raccontarlo.
Nino mi saluta con un abbraccio e riprende a caricare il furgone. Il 5 settembre si inaugura la mostra Internazionale della Ceramica a Castellamonte ed il suo Esercito debutta per la prima volta, dopo l'anteprima laziale a Sperlonga, nella nostra regione. Vi consiglio di cuore di andarlo a vedere.
Specialnews - ottobre - novembre 2008
Nino Ventura, Cavaliere del Piccolo Pesce.
Sono le nove e mezzo di un sabato quando arrivo al Cerello, venendo dalla parte di San Benigno. Siamo alle porte di Chivasso, le distese dei seminativi, ordinatissimi, sono ricoperte da uno strato luccicante di brina. Dove ha ristagnato l'acqua delle piogge recenti, il freddo della notte ha creato uno specchio di ghiaccio per un cielo terso come solo l'inverno produce.
Il campanile, sul lato ovest, è la prima cosa che tu noti, di questa bella tenuta, a struttura quadrangolare, suddivisa in due aree di ampio respiro, ora sede di Planeta ' uno studio associato che si occupa di ingegneria ambientale ' e del laboratorio di Nino Ventura. Ai piedi del campanile, arriviamo insieme, Nino ed io - lui a bordo del suo furgoncino bianco con stampato sopra il logo gioioso 'Mediterraneo terra mia'. È subito cordiale, gioviale, ospitale, questo ragazzo di quasi 50 anni che mi introduce nel suo atelier.
Mentre raccoglie dei ciocchi di legna e li mette nel cammino, mi guardo attorno. I suoi grandi arcangeli sono sotto l'arcata del primo cortile, proprio davanti a me. Sulla sinistra le figure imponenti dei guerrieri dell'Esercito del Piccolo Pesce. Nell'interno, forme di pesce dappertutto, sviluppate in lussureggiante variabilità, grandi statue con figure umane ma che conservano sulla testa e altrove la forma originaria del pesce, sirene che costituiscono l'anello di congiunzione tra il pesce originario e le figure umane e poi angeliche. La sensazione è quella di una grande energia che circola e fuoriesce da questo scenario imponente.
Nino sta accendendo delle candele mentre mi è salita nella mente la tematica da cui partire nella nostra chiacchierata. Sta dicendo che nell'ambiente di lavoro lui vuole avere sempre del fuoco e dell'acqua, che sono archetipi originari delle energie vitali. I grossi piedi di certe sue statue parlano anche di un largo e forte legame con la terra. Il suo uso della simbologia mi apre il terreno: lo invito a parlare del rapporto tra la sua arte e l'energia, la vitalità.
Si vede dall'espressione del volto che diversi pensieri si affollano immediatamente nella sua testa mentre cerca di trovare il bandolo della matassa.
So benissimo che l'arte può servire ad esprimere dolore, frustrazione, desolazione, smarrimento, malattia... So che l'arte può essere anche terapia. Ma il concetto di terapia non è sufficiente a vestire adeguatamente quella cosa straordinaria che è l'arte. Ne limiterebbe l'essenza. Per me l'arte è un'espressione positiva di energia che si trasferisce nell'oggetto prodotto. È qualcosa di irriducibile, qualcosa di unico. E noi dobbiamo rispettare la sua natura. E dobbiamo averne una concezione adeguata. Per me, l'arte è nell'oggetto, nell'opera e non nella funzione che opera nella persona dell'artista.
Questo significa che anche mettere le opere in rapporto, in connessione con la vita, con la soggettività, con la biografia dell'autore non è indispensabile, dal mio punto di vista, alla qualità artistica dell'opera. Può essere interessante, rispondere a un desiderio di conoscenza, o di erudizione, sapere che in quel periodo ' in cui faceva quelle cose - un certo autore soffriva o era innamorato, o progettava di, o era tormentato da'
Ma, a mio parere, questo non appartiene alla qualità artistica di un oggetto. Che ha una sua autonomia e che trascende la biografia stessa del suo autore.
Insisto volutamente sull'aspetto oggettivo dell'arte, sull'autonomia che l'opera d'arte acquista e sviluppa, anche rispetto a chi l'ha prodotta. È qualcosa che risulta chiaro quando il fruitore dell'opera d'arte si sente toccato, quando l'opera suscita emozione dentro di lui, anche indipendentemente dall'autore. L'opera gli suscita emozioni che lo mettono in moto. Emozioni che poi si relazionano al background di ognuno, con la propria soggettività. E via dicendo'
Insisto sull'oggettività dell'arte anche per prendere le distanze dalla tendenza dominante dell'arte contemporanea, che è diventata, a mio parere, troppo concettuale, nel duplice senso di eccessivamente mentale (allontanata dalla relazione emotiva di chi la fa e di chi la fruisce) e nel senso, soprattutto, che è affidata alla presunzione artistica di un gesto, di un'azione, pensati come tali perché decontestualizzando un oggetto già dato e sistemandolo in uno spazio ostensivo (per esempio, mettendo un rotolo di carta igienica in una teca di vetro), credono che questo basti a fare arte.
Il gesto, l'audacia dell'azione, potrà certamente avere un suo significato trasgressivo, o di provocazione ' soprattutto quando è stato fatto la prima volta ' ma, in sé, questa concezione del fare arte, mi sembra troppo facile. Mi sembra che uccida, distrugga il significato stesso dell'arte.
Non è sufficiente un gesto che può fare chiunque, a creare l'opera d'arte. Per questo io preferisco riportare l'attività artistica alla serietà, all'impegno, allo studio, dell'artigianato. È da questo lavoro consapevole, accurato, che emergono le qualità che, impastate alla genialità dell'artista, vanno a incorporarsi nel valore artistico dell'opera. Che mantiene, così, il suo legame con la serietà dell'impegno e il valore estetico, a fronte di un'arte contemporanea che spesso cerca solo di stupire, dimenticando il suo legame con il gusto.
A questo proposito io devo sottolineare che non mi sento di dichiararmi un ceramista. Un ceramista, ai miei occhi, possiede una competenza tecnica che io non possiedo. Io amo la terra, per la sua immediatezza, la sua flessibilità, docilità alla modellazione, il suo prestarsi docile alla intuitività del gesto' amo questo materiale, ma non ho la competenza necessaria per trattare la terra con una conoscenza compiuta. Ti potrei raccontare un aneddoto, che illustra questa situazione. Avevo fatto un pannello di elementi di argilla, assemblati insieme e li avevo dati a cuocere ad un amico attrezzato. Questo amico aveva sbagliato la cottura. Il risultato era dunque qualcosa di bruciato. Beh, Renzo Igne, il grande maestro, vedendo queste forme, ne era rimasto in qualche modo colpito e mi chiedeva dettagli tecnici sul modo in cui lo avevo realizzato. Lui era un ceramista. Lui voleva capire facendo cosa si poteva ottenere quello che si voleva ottenere. Per me è stato un evento casuale, non previsto.
L'arte, invece, mi appartiene, in qualche modo. L'arte in gran parte è un dono misterioso. Ma d'altra parte, cosa non è un dono misterioso' La vita nostra, in tutti i suoi aspetti, è dono. Quello che io ho sentito e che sento è il bisogno di usarlo bene, questo dono. Intanto coltivarlo, esercitarlo, esprimerlo. Un dono non si tiene in cantina. Un talento non lo si sotterra. Lo si investe. Io sento che in qualche modo ho questo compito, di mostrare, esprimendo la mia arte, che la vita è dono, bellezza, gioia, energia'
Anche se il 90% delle cose che faccio non mi soddisfano completamente, l'attività artistica è gioia per me ed è piacevole esercizio fisico. La scultura impegna molto l'aspetto fisico della persona. Il processo della scultura è il vero momento soggettivo dell'arte. Poi, l'opera avrà la sua autonomia, si staccherà anche dal soggetto. Una volta fatta è fatta. Ma io sono nel processo più che nell'opera. Il processo è il luogo in cui so di essere, facendo, muovendo le braccia, impegnando la mia fisicità.
Durante il giorno io mi nutro incessantemente di immagini, di esperienze. Io passo la giornata rubando a destra e sinistra stimoli che incorporo e digerisco. È un lavoro in gran parte inconscio. Lascio che sia la pancia a svolgerlo. È lo stomaco il centro del processo di incubazione. E poi, quando le cose cominciano ad uscire, allora interviene la cultura, la consapevolezza, la parola, il senso visto ed enunciato.
E arriviamo al pesce!
Gli dico che ho letto del ruolo che ha questa figura nella sua biografia artistica. So che rivela il rapporto con l'acqua, con il Mediterraneo in specie, con la sua pratica da sub, eccetera. Ma so anche che il pesce ' e le sue successive evoluzioni ' si collegano strettamente con la simbologia protocristiana, e dunque con la religione. Gli chiedo se questo legame con la religione, o la fede, o le nostre radici culturali ' come lui spesso ama dire ' è davvero essenziale o è un elemento, come dire, di altra natura che lui ha associato alla sua pratica artistica. I grandi filosofi dell'Ottocento hanno tutti cercato di definire i rapporti tra arte, religione e filosofia. Come si connettono queste forme della cultura per Nino Ventura'
Per me il riferimento alla religione, al Cristianesimo, è fondamentale. La religione è in grado di dare una direzione alla qualità della vita. È l'unica fonte di indicazioni che riesce a gestire la dimensione spirituale necessaria a sollevare l'individuo sopra la dimensione puramente materialistica. Ecco, per me, l'arte è lo strumento che serve per materializzare la spiritualità. La spiritualità, espressa in semplici concetti astratti, non parlerebbe in maniera convincente alla nostra struttura umana, che è fatta di senso, di corpo, di immaginazione. L'arte consente alla spiritualità di farsi sentire e vedere e toccare. Di entrare nel corpo sensibile dell'uomo. E questo legame tra spiritualità ed arte porta l'opera d'arte oltre la pura dimensione estetica. Oltre il Bello! I miei Arcangeli non sono esteticamente belli. Io li trovo perfino un po' deformati e, soprattutto, frammentati. Sono un esempio di quel che voglio dire. Gli Arcangeli, in quel modo, stanno raccontando una condizione di frammentazione e di spezzettamento che attraversa lo spirito dell'umanità, dei popoli.
Intravedo ancora il nesso che l'artista Nino Ventura stabilisce tra spiritualità e arte, osservando i lavori che sta facendo in preparazione di una prossima mostra dedicata agli ex voto. Nino scioglie la perplessità che vede dipinta sul mio volto sottolineando l'elemento significativo di questa scelta. Mi dice che gli ex voto, lui, li vede come tracce di storie molto belle e positive, sono segni di gratitudine di persone che hanno visto la conclusione felice di una storia che poteva essere tragica, che poteva annientare e che la fede ha saputo elevare fino al riscatto finale.
E si ritorna dunque all'arte come positività gioiosa, espressione di energia positiva.
Porto Nino a parlare del lavoro necessario per promuovere la propria arte, il che vuol dire del rapporto dell'artista con il mercato.
Il grande mercato, su scala internazionale, ha oggi in mano il destino dell'arte e degli artisti. Ma non bisognerebbe rassegnarsi a questo monopolio e alle sue operazioni di omologazione. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di simile a ciò che è avvenuto con lo Slow Food nel campo dell'alimentazione e della ristorazione. È possibile che questa aspettativa trovi delle realizzazioni'
Intanto io credo che l'artista che voglia restare indipendente debba assumersi in proprio la responsabilità del proprio marketing. Certo, in termini professionali, il marketing è un altro lavoro. L'artista fa soprattutto l'artista. Ma non bisogna essere troppo dottrinari. L'artista deve usare la sua creatività per trovare i modi di realizzazione dei suoi progetti (che nella scultura sono piuttosto costosi), deve trovare le modalità per rendere visibile la sua opera, e creare nel mondo delle relazioni quelle condizioni che consentono al suo lavoro di venir valorizzato. Altrimenti è come se sotterrasse il suo talento, se lo rinchiudesse in cantina.
È chiaro che la capacità comunicativa e relazionale ha un suo ruolo importante in questo lavoro. Come pure la capacità di dire a parole il senso di quello che fa. Insomma questo aspetto della vita dell'artista deve attrarre una parte delle sue energie evitando di rinchiuderlo nello sterile piagnisteo che accompagna talvolta anche una concezione molto elevata e pura della vita artistica.
Quando lascio il Cerello, rimuginando le parole di Nino, ormai la brina e diventata una patina di umidità ai piedi delle piantine di frumento che occhieggiano dai filari ordinati. Un airone cinerino si muove al rallentatore in linea parallela alla strada, mentre un suo compagno resta incredibilmente immobile, stagliandosi, in meditazione zen, sullo sfondo ceruleo dell'orizzonte.
Gazzetta del Canavese - 24 dicembre 2008
Sono le nove e mezzo di un sabato quando arrivo al Cerello, venendo dalla parte di San Benigno. Siamo alle porte di Chivasso, le distese dei seminativi, ordinatissimi, sono ricoperte da uno strato luccicante di brina. Dove ha ristagnato l'acqua delle piogge recenti, il freddo della notte ha creato uno specchio di ghiaccio per un cielo terso come solo l'inverno produce.
Il campanile, sul lato ovest, è la prima cosa che tu noti, di questa bella tenuta, a struttura quadrangolare, suddivisa in due aree di ampio respiro, ora sede di Planeta ' uno studio associato che si occupa di ingegneria ambientale ' e del laboratorio di Nino Ventura. Ai piedi del campanile, arriviamo insieme, Nino ed io - lui a bordo del suo furgoncino bianco con stampato sopra il logo gioioso 'Mediterraneo terra mia'. È subito cordiale, gioviale, ospitale, questo ragazzo di quasi 50 anni che mi introduce nel suo atelier.
Mentre raccoglie dei ciocchi di legna e li mette nel cammino, mi guardo attorno. I suoi grandi arcangeli sono sotto l'arcata del primo cortile, proprio davanti a me. Sulla sinistra le figure imponenti dei guerrieri dell'Esercito del Piccolo Pesce. Nell'interno, forme di pesce dappertutto, sviluppate in lussureggiante variabilità, grandi statue con figure umane ma che conservano sulla testa e altrove la forma originaria del pesce, sirene che costituiscono l'anello di congiunzione tra il pesce originario e le figure umane e poi angeliche. La sensazione è quella di una grande energia che circola e fuoriesce da questo scenario imponente.
Nino sta accendendo delle candele mentre mi è salita nella mente la tematica da cui partire nella nostra chiacchierata. Sta dicendo che nell'ambiente di lavoro lui vuole avere sempre del fuoco e dell'acqua, che sono archetipi originari delle energie vitali. I grossi piedi di certe sue statue parlano anche di un largo e forte legame con la terra. Il suo uso della simbologia mi apre il terreno: lo invito a parlare del rapporto tra la sua arte e l'energia, la vitalità.
Si vede dall'espressione del volto che diversi pensieri si affollano immediatamente nella sua testa mentre cerca di trovare il bandolo della matassa.
So benissimo che l'arte può servire ad esprimere dolore, frustrazione, desolazione, smarrimento, malattia... So che l'arte può essere anche terapia. Ma il concetto di terapia non è sufficiente a vestire adeguatamente quella cosa straordinaria che è l'arte. Ne limiterebbe l'essenza. Per me l'arte è un'espressione positiva di energia che si trasferisce nell'oggetto prodotto. È qualcosa di irriducibile, qualcosa di unico. E noi dobbiamo rispettare la sua natura. E dobbiamo averne una concezione adeguata. Per me, l'arte è nell'oggetto, nell'opera e non nella funzione che opera nella persona dell'artista.
Questo significa che anche mettere le opere in rapporto, in connessione con la vita, con la soggettività, con la biografia dell'autore non è indispensabile, dal mio punto di vista, alla qualità artistica dell'opera. Può essere interessante, rispondere a un desiderio di conoscenza, o di erudizione, sapere che in quel periodo ' in cui faceva quelle cose - un certo autore soffriva o era innamorato, o progettava di, o era tormentato da'
Ma, a mio parere, questo non appartiene alla qualità artistica di un oggetto. Che ha una sua autonomia e che trascende la biografia stessa del suo autore.
Insisto volutamente sull'aspetto oggettivo dell'arte, sull'autonomia che l'opera d'arte acquista e sviluppa, anche rispetto a chi l'ha prodotta. È qualcosa che risulta chiaro quando il fruitore dell'opera d'arte si sente toccato, quando l'opera suscita emozione dentro di lui, anche indipendentemente dall'autore. L'opera gli suscita emozioni che lo mettono in moto. Emozioni che poi si relazionano al background di ognuno, con la propria soggettività. E via dicendo'
Insisto sull'oggettività dell'arte anche per prendere le distanze dalla tendenza dominante dell'arte contemporanea, che è diventata, a mio parere, troppo concettuale, nel duplice senso di eccessivamente mentale (allontanata dalla relazione emotiva di chi la fa e di chi la fruisce) e nel senso, soprattutto, che è affidata alla presunzione artistica di un gesto, di un'azione, pensati come tali perché decontestualizzando un oggetto già dato e sistemandolo in uno spazio ostensivo (per esempio, mettendo un rotolo di carta igienica in una teca di vetro), credono che questo basti a fare arte.
Il gesto, l'audacia dell'azione, potrà certamente avere un suo significato trasgressivo, o di provocazione ' soprattutto quando è stato fatto la prima volta ' ma, in sé, questa concezione del fare arte, mi sembra troppo facile. Mi sembra che uccida, distrugga il significato stesso dell'arte.
Non è sufficiente un gesto che può fare chiunque, a creare l'opera d'arte. Per questo io preferisco riportare l'attività artistica alla serietà, all'impegno, allo studio, dell'artigianato. È da questo lavoro consapevole, accurato, che emergono le qualità che, impastate alla genialità dell'artista, vanno a incorporarsi nel valore artistico dell'opera. Che mantiene, così, il suo legame con la serietà dell'impegno e il valore estetico, a fronte di un'arte contemporanea che spesso cerca solo di stupire, dimenticando il suo legame con il gusto.
A questo proposito io devo sottolineare che non mi sento di dichiararmi un ceramista. Un ceramista, ai miei occhi, possiede una competenza tecnica che io non possiedo. Io amo la terra, per la sua immediatezza, la sua flessibilità, docilità alla modellazione, il suo prestarsi docile alla intuitività del gesto' amo questo materiale, ma non ho la competenza necessaria per trattare la terra con una conoscenza compiuta. Ti potrei raccontare un aneddoto, che illustra questa situazione. Avevo fatto un pannello di elementi di argilla, assemblati insieme e li avevo dati a cuocere ad un amico attrezzato. Questo amico aveva sbagliato la cottura. Il risultato era dunque qualcosa di bruciato. Beh, Renzo Igne, il grande maestro, vedendo queste forme, ne era rimasto in qualche modo colpito e mi chiedeva dettagli tecnici sul modo in cui lo avevo realizzato. Lui era un ceramista. Lui voleva capire facendo cosa si poteva ottenere quello che si voleva ottenere. Per me è stato un evento casuale, non previsto.
L'arte, invece, mi appartiene, in qualche modo. L'arte in gran parte è un dono misterioso. Ma d'altra parte, cosa non è un dono misterioso' La vita nostra, in tutti i suoi aspetti, è dono. Quello che io ho sentito e che sento è il bisogno di usarlo bene, questo dono. Intanto coltivarlo, esercitarlo, esprimerlo. Un dono non si tiene in cantina. Un talento non lo si sotterra. Lo si investe. Io sento che in qualche modo ho questo compito, di mostrare, esprimendo la mia arte, che la vita è dono, bellezza, gioia, energia'
Anche se il 90% delle cose che faccio non mi soddisfano completamente, l'attività artistica è gioia per me ed è piacevole esercizio fisico. La scultura impegna molto l'aspetto fisico della persona. Il processo della scultura è il vero momento soggettivo dell'arte. Poi, l'opera avrà la sua autonomia, si staccherà anche dal soggetto. Una volta fatta è fatta. Ma io sono nel processo più che nell'opera. Il processo è il luogo in cui so di essere, facendo, muovendo le braccia, impegnando la mia fisicità.
Durante il giorno io mi nutro incessantemente di immagini, di esperienze. Io passo la giornata rubando a destra e sinistra stimoli che incorporo e digerisco. È un lavoro in gran parte inconscio. Lascio che sia la pancia a svolgerlo. È lo stomaco il centro del processo di incubazione. E poi, quando le cose cominciano ad uscire, allora interviene la cultura, la consapevolezza, la parola, il senso visto ed enunciato.
E arriviamo al pesce!
Gli dico che ho letto del ruolo che ha questa figura nella sua biografia artistica. So che rivela il rapporto con l'acqua, con il Mediterraneo in specie, con la sua pratica da sub, eccetera. Ma so anche che il pesce ' e le sue successive evoluzioni ' si collegano strettamente con la simbologia protocristiana, e dunque con la religione. Gli chiedo se questo legame con la religione, o la fede, o le nostre radici culturali ' come lui spesso ama dire ' è davvero essenziale o è un elemento, come dire, di altra natura che lui ha associato alla sua pratica artistica. I grandi filosofi dell'Ottocento hanno tutti cercato di definire i rapporti tra arte, religione e filosofia. Come si connettono queste forme della cultura per Nino Ventura'
Per me il riferimento alla religione, al Cristianesimo, è fondamentale. La religione è in grado di dare una direzione alla qualità della vita. È l'unica fonte di indicazioni che riesce a gestire la dimensione spirituale necessaria a sollevare l'individuo sopra la dimensione puramente materialistica. Ecco, per me, l'arte è lo strumento che serve per materializzare la spiritualità. La spiritualità, espressa in semplici concetti astratti, non parlerebbe in maniera convincente alla nostra struttura umana, che è fatta di senso, di corpo, di immaginazione. L'arte consente alla spiritualità di farsi sentire e vedere e toccare. Di entrare nel corpo sensibile dell'uomo. E questo legame tra spiritualità ed arte porta l'opera d'arte oltre la pura dimensione estetica. Oltre il Bello! I miei Arcangeli non sono esteticamente belli. Io li trovo perfino un po' deformati e, soprattutto, frammentati. Sono un esempio di quel che voglio dire. Gli Arcangeli, in quel modo, stanno raccontando una condizione di frammentazione e di spezzettamento che attraversa lo spirito dell'umanità, dei popoli.
Intravedo ancora il nesso che l'artista Nino Ventura stabilisce tra spiritualità e arte, osservando i lavori che sta facendo in preparazione di una prossima mostra dedicata agli ex voto. Nino scioglie la perplessità che vede dipinta sul mio volto sottolineando l'elemento significativo di questa scelta. Mi dice che gli ex voto, lui, li vede come tracce di storie molto belle e positive, sono segni di gratitudine di persone che hanno visto la conclusione felice di una storia che poteva essere tragica, che poteva annientare e che la fede ha saputo elevare fino al riscatto finale.
E si ritorna dunque all'arte come positività gioiosa, espressione di energia positiva.
Porto Nino a parlare del lavoro necessario per promuovere la propria arte, il che vuol dire del rapporto dell'artista con il mercato.
Il grande mercato, su scala internazionale, ha oggi in mano il destino dell'arte e degli artisti. Ma non bisognerebbe rassegnarsi a questo monopolio e alle sue operazioni di omologazione. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di simile a ciò che è avvenuto con lo Slow Food nel campo dell'alimentazione e della ristorazione. È possibile che questa aspettativa trovi delle realizzazioni'
Intanto io credo che l'artista che voglia restare indipendente debba assumersi in proprio la responsabilità del proprio marketing. Certo, in termini professionali, il marketing è un altro lavoro. L'artista fa soprattutto l'artista. Ma non bisogna essere troppo dottrinari. L'artista deve usare la sua creatività per trovare i modi di realizzazione dei suoi progetti (che nella scultura sono piuttosto costosi), deve trovare le modalità per rendere visibile la sua opera, e creare nel mondo delle relazioni quelle condizioni che consentono al suo lavoro di venir valorizzato. Altrimenti è come se sotterrasse il suo talento, se lo rinchiudesse in cantina.
È chiaro che la capacità comunicativa e relazionale ha un suo ruolo importante in questo lavoro. Come pure la capacità di dire a parole il senso di quello che fa. Insomma questo aspetto della vita dell'artista deve attrarre una parte delle sue energie evitando di rinchiuderlo nello sterile piagnisteo che accompagna talvolta anche una concezione molto elevata e pura della vita artistica.
Quando lascio il Cerello, rimuginando le parole di Nino, ormai la brina e diventata una patina di umidità ai piedi delle piantine di frumento che occhieggiano dai filari ordinati. Un airone cinerino si muove al rallentatore in linea parallela alla strada, mentre un suo compagno resta incredibilmente immobile, stagliandosi, in meditazione zen, sullo sfondo ceruleo dell'orizzonte.
Gazzetta del Canavese - 24 dicembre 2008
A quale tempo appartengono le opere di Nino Ventura' La domanda potrà sembrare ovvia, ma certamente non altrettanto scontate possono essere le considerazioni che dovrebbero indirizzarci ad un tentativo di risposta.rnLa nostra modernità ci ha abituato, ai limiti dell'afasia indotta, al brutto ed alla celebrazione delle immondizie del mondo ed appare assai raro, ancorchè in linea con i valori della nostra secolare tradizione, che possano esistere artisti (pittori e scultori) con un'espressività così fortemente indirizzata all'evocazione, sognata e sognante, della Bellezza e dell' "altrove".rnVentura sogna. E realizza compiutamente i suoi sogni in sculture dal forte potere evocativo, figlie di un'espressività che poco o nulla si cura degli pseudovalori imposti da un sistema (estetico, filosofico e qualt'altro) che ha elevato la cosiddetta creatività a dogma imprescindibile, a scapito della creazione artistica vera e propria. Cosa pensare davanti alla primitiva bellezza delle sue sculture, a quelle fusioni "a cera persa" che già nella nobiltà dell'antica tecnica, di un "fare" desueto e apparentemente anacronistico nell'epoca del "ready made" e della virtualità, ci appaiono (e sottolineo appaiono) quanto di più concettualmente lontano dalla facilità immediata cui siamo tristemente indotti' Opere, che in parallelo, risultano piene di contaminazioni culturali, fino al limite dell'istallazione, con quel bisogno rituale che le ravviva e dà loro senso oltre la forma, anche solo nel "semplice" gesto di riempirne le membra con elementi naturali (fuoco, terra, aria, acqua). Non è forse di Beuys, quindi della nostra modernità più concettosa, l'elevamento del gesto ad opera d'arte'rnTutto questo in Ventura avviene in maniera naturale, poetica, mai meramente concettuale o concettosa, appunto, ma anzi asservita ad un'evocazione poetica che non necessita di alessandrinismi critici per rivelarsi all'occhio (e al cuore) dell'osservatore.rnAnche nella citazione, nel continuo riferirsi a materiali e immagini della sua (e nostra) tradizione, il compiacimento, o la sudditanza formale che dir si voglia, appare lontana da qualunque sterile manierismo o tentazione semplicistica. Il viaggio nel tempo avviene in maniera vivacemente espressiva, al punto da poter accostare solidità ed ordine classico alla studiata casualità dei graffiti, alla severa ma leggera ieraticità di forme e figure che in quel modo escono dal tempo, dal nostro tempo, per riportarci emotivamente nell' "altrove" più impossibile.La contraddizione evidente è anche significata dalla complessa simbologia, che solo ad uno sguardo più attento si rivela come foriera di una creatività tutt'altro che semplice da decifrare Opere, dunque, che parlano. Tanto al semplice osservatore quanto allo sguardo più raffinato. E che comunque, nel loro affascinante mistero, scatenano un'irrefrenabile potere seduttivo. L'arte è anche questo: saper "raccontare" l'invisibile anche solo ad un semplice sguardo, evocando immagini ed emozioni che in nulla hanno a che fare con la realtà più immediata. La Bellezza non è lo sterile ospizio di decoratori sbagliati di tempo, ma lo strumento primiero per schiuderci le porte di altri mondi ed altre realtà. Invisibili nell'odierno quotidiano, ma altrettanto presenti a tutti coloro che sanno osservare e lasciarsi trasportare oltre i confini del visibile.rnLa domanda iniziale rimane così finalmente senza risposta. Il tempo di Ventura è il non tempo del sogno e della Bellezza. Sfuggente, seduttivo, evocativo e mai definitivo. E' un tempo-senza- tempo, nel quale gli opposti coincidono e l'impossibile si realizza, conciliando opposti altrimenti impossibili da far coincidere.rnrnAlberto Agazzanirn
Nino Ventura è un artista poliedrico. La sua ricerca spazia dalla scultura alla pittura, ma anche la ceramica o le installazioni. Uomo di grande cultura ha messo a pumto un suo stile assolutamente personale e riconoscibile. Le radici nel passato unite all'attenzione all'innovazione sono la linfa inesauribile della sua ricerca artistica.
Artista della Committenza ha fatto proprio il modo di lavorare dei Grandi Maestri della nostra storia dell'arte i cui lavori su commissione hanno reso unico il nostro paese.
Artista della Committenza ha fatto proprio il modo di lavorare dei Grandi Maestri della nostra storia dell'arte i cui lavori su commissione hanno reso unico il nostro paese.
La domanda potrà sembrare ovvia, ma certamente non altrettanto scontate possono essere le considerazioni che dovrebbero indirizzarci ad un tentativo di risposta. La nostra modernità ci ha abituato, ai limiti dell’afasia indotta, al brutto ed alla celebrazione delle immondizie del mondo ed appare assai raro, ancorché in linea con i valori della nostra secolare tradizione, che possano esistere artisti (pittori e scultori) con un’espressività così fortemente indirizzata all’evocazione, sognata e sognante, della Bellezza e dell’"altrove". Ventura sogna. E realizza compiutamente i suoi sogni in sculture dal forte potere evocativo, figlie di un’espressività che poco o nulla si cura degli pseudovalori imposti da un sistema (estetico, filosofico e qualt’altro) che ha elevato la cosiddetta creatività a dogma imprescindibile, a scapito della creazione artistica vera e propria.
Cosa pensare davanti alla primitiva bellezza delle sue sculture, a quelle fusioni "a cera persa" che già nella nobiltà dell’antica tecnica, di un "fare" desueto e apparentemente anacronistico nell’epoca del "ready made" e della virtualità, ci appaiono (e sottolineo appaiono) quanto di più concettualmente lontano dalla facilità immediata cui siamo tristemente indotti' Opere, che in parallelo, risultano piene di contaminazioni culturali, fino al limite dell’istallazione, con quel bisogno rituale che le ravviva e dà loro senso oltre la forma, anche solo nel "semplice" gesto di riempirne le membra con elementi naturali (fuoco, terra, aria, acqua). Non è forse di Beuys, quindi della nostra modernità più concettosa, l’elevamento del gesto ad opera d’arte' Tutto questo in Ventura avviene in maniera naturale, poetica, mai meramente concettuale o concettosa, appunto, ma anzi asservita ad un’evocazione poetica che non necessita di alessandrinismi critici per rivelarsi all’occhio (e al cuore) dell’osservatore.
Anche nella citazione, nel continuo riferirsi a materiali e immagini della sua (e nostra) tradizione, il compiacimento, o la sudditanza formale che dir si voglia, appare lontana da qualunque sterile manierismo o tentazione semplicistica. Il viaggio nel tempo avviene in maniera vivacemente espressiva, al punto da poter accostare solidità ed ordine classico alla studiata casualità dei graffiti, alla severa ma leggera ieraticità di forme e figure che in quel modo escono dal tempo, dal nostro tempo, per riportarci emotivamente nell’altrove più impossibile. La contraddizione evidente è anche significata dalla complessa simbologia, che solo ad uno sguardo più attento si rivela come foriera di una creatività tutt’altro che semplice da decifrare. Opere, dunque, che parlano. Tanto al semplice osservatore quanto allo sguardo più raffinato.
E che comunque, nel loro affascinante mistero, scatenano un’irrefrenabile potere seduttivo. L’arte è anche questo: saper "raccontare" l’invisibile anche solo ad un semplice sguardo, evocando immagini ed emozioni che in nulla hanno a che fare con la realtà più immediata. La Bellezza non è lo sterile ospizio di decoratori sbagliati di tempo, ma lo strumento primiero per schiuderci le porte di altri mondi ed altre realtà. Invisibili nell’odierno quotidiano, ma altrettanto presenti a tutti coloro che sanno osservare e lasciarsi trasportare oltre i confini del visibile. La domanda iniziale rimane così finalmente senza risposta. Il tempo di Ventura è il non tempo del sogno e della Bellezza. Sfuggente, seduttivo, evocativo e mai definitivo. E’ un tempo-senza- tempo, nel quale gli opposti coincidono e l’impossibile si realizza, conciliando opposti altrimenti impossibili da far coincidere.
Cosa pensare davanti alla primitiva bellezza delle sue sculture, a quelle fusioni "a cera persa" che già nella nobiltà dell’antica tecnica, di un "fare" desueto e apparentemente anacronistico nell’epoca del "ready made" e della virtualità, ci appaiono (e sottolineo appaiono) quanto di più concettualmente lontano dalla facilità immediata cui siamo tristemente indotti' Opere, che in parallelo, risultano piene di contaminazioni culturali, fino al limite dell’istallazione, con quel bisogno rituale che le ravviva e dà loro senso oltre la forma, anche solo nel "semplice" gesto di riempirne le membra con elementi naturali (fuoco, terra, aria, acqua). Non è forse di Beuys, quindi della nostra modernità più concettosa, l’elevamento del gesto ad opera d’arte' Tutto questo in Ventura avviene in maniera naturale, poetica, mai meramente concettuale o concettosa, appunto, ma anzi asservita ad un’evocazione poetica che non necessita di alessandrinismi critici per rivelarsi all’occhio (e al cuore) dell’osservatore.
Anche nella citazione, nel continuo riferirsi a materiali e immagini della sua (e nostra) tradizione, il compiacimento, o la sudditanza formale che dir si voglia, appare lontana da qualunque sterile manierismo o tentazione semplicistica. Il viaggio nel tempo avviene in maniera vivacemente espressiva, al punto da poter accostare solidità ed ordine classico alla studiata casualità dei graffiti, alla severa ma leggera ieraticità di forme e figure che in quel modo escono dal tempo, dal nostro tempo, per riportarci emotivamente nell’altrove più impossibile. La contraddizione evidente è anche significata dalla complessa simbologia, che solo ad uno sguardo più attento si rivela come foriera di una creatività tutt’altro che semplice da decifrare. Opere, dunque, che parlano. Tanto al semplice osservatore quanto allo sguardo più raffinato.
E che comunque, nel loro affascinante mistero, scatenano un’irrefrenabile potere seduttivo. L’arte è anche questo: saper "raccontare" l’invisibile anche solo ad un semplice sguardo, evocando immagini ed emozioni che in nulla hanno a che fare con la realtà più immediata. La Bellezza non è lo sterile ospizio di decoratori sbagliati di tempo, ma lo strumento primiero per schiuderci le porte di altri mondi ed altre realtà. Invisibili nell’odierno quotidiano, ma altrettanto presenti a tutti coloro che sanno osservare e lasciarsi trasportare oltre i confini del visibile. La domanda iniziale rimane così finalmente senza risposta. Il tempo di Ventura è il non tempo del sogno e della Bellezza. Sfuggente, seduttivo, evocativo e mai definitivo. E’ un tempo-senza- tempo, nel quale gli opposti coincidono e l’impossibile si realizza, conciliando opposti altrimenti impossibili da far coincidere.
‘Merdre!’ Così esordiva Ubu Roi, un vecchio zio del surrealismo e del teatro dell’assurdo, nel 1896 al Théâtre de l'Œuvre di Parigi. E questa parola, fusione di merde e mère, basta da sola a dare il (non)senso di tutta l’opera di Alfred Jarry, un capolavoro che all’epoca fece scandalizzare il pubblico. I personaggi andavano al di là di ogni senso e per la prima volta moralità o immoralità non trovavano spazio sul palco. Era patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie.
Questo mi attrae incredibilmente del lavoro di Nino Ventura: le sue creazioni sono localizzabili al confine tra due universi. Sono impulsive e instabili, ma allo stesso tempo molto concrete. Sono assurde e hanno una doppia faccia. È ovvio che quello del dualismo sia un concetto intrigante. Dell’aspetto duale si è occupata la psicologia, la filosofia, la neurologia e persino la matematica, oltre ad altre decine di discipline. Non parlo solamente dell’organismo che incontra la coscienza, del corpo che incontra l’anima, ma degli aspetti e delle moltitudini dell’essere umano che ne sanciscono la ricchezza. E a me piace pensare a tratti della personalità che tra loro ammiccano, si provocano, si eccitano, si sfidano e si affrontano, si corrodono, si affezionano, si convincono. A una prima visione le opere di Ventura rinunciano al contesto, lasciando spazio all’interpretazione inerente la nostra sfera più intima e facendo esplodere gli elementi più connaturati e contrastanti nella condizione umana: la sopraffazione e la bonarietà, l’odio e la tenerezza, la violenza e la sicurezza. Questo è l’ambito a disposizione dell’uomo, quello in cui la società contemporanea ci costringe a vivere sempre tesi, sul chi va là. Rothko diceva che i suoi quadri ritraggono una imminente esplosione, il momento che precede l’istante del disastro. Ecco a me gli eserciti di Nino Ventura sembrano essere lì pronti ad aggredirmi. Infatti, i suoi soggetti ci caricano di ansietà, di inquietudine, perché ci privano del comfort della padronanza di noi stessi. Creature dal sapore fiabesco, ma deformi e innaturali, che come tutte le cose che spaventano allo stesso tempo affascinano e contagiano, e ci spingono a ricercare una qualche somiglianza con noi stessi. Queste figure navigano in un limbo, ma sembrano venire da un posto ben definito. Sono il possibile contro il probabile, un universo che solo un artista può essere in grado di vedere e riportare. Allo stesso tempo, però, evocano un mondo antico riscoperto, le gesta eroiche di una civiltà che non c’è più. Damien Hirst in “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, mostra-evento che nel 2017 ha invaso le sale di Punta della Dogana e Palazzo Grassi a Venezia, ci ha parlato del ritrovamento dei tesori sommersi custoditi nel relitto di una nave immaginaria, con personaggi di un mondo scomparso che ritorna alla luce. Nino Ventura sembra avere intuito prima, e senza l’aura da fighetto di Hirst, che non solo il futuro ma anche il passato è immaginabile. Scriveva Leopardi: Torna al celeste raggio - Dopo l'antica obblivion l'estinta - Pompei, come sepolto- Scheletro, cui di terra - Avarizia o pietà rende all'aperto. Ecco che Nino Ventura allora crea una sorta di Pompei che si rigenera continuamente, che applica al passato le possibilità del divenire. Con sirene, angeli e arcangeli, pesci, soldati di ogni sorta ha costruito un universo che non conosce il tempo e che riesce a solcare il tracciato dell’ironia oltre a quello dell’inquietudine. Le sue opere sono pedoni o alfieri o regine di una scacchiera rimescolata e per dirla con Schopenhauer “nella vita accade come nel gioco degli scacchi: noi abbozziamo un piano, ma esso è condizionato da ciò che si compiacerà di fare nel gioco degli scacchi l'avversario, nella vita il destino”.
L’abilità tecnica di Nino Ventura, la sua conoscenza della terracotta e del bronzo, l’attenzione ai dettagli, sono sorprendenti. Non sono orgoglio di bellezza queste opere, ma scintille di visione che viaggiano sui binari del ribaltamento delle convenzioni, della dissoluzione del linguaggio, del grottesco come riflessione.
La figura non è solamente corpo, ma la materializzazione di uno spirito che arriva da una dimensione che fatichiamo a decifrare. L’esplosione della fantasia e delle individualità offre una lente di ingrandimento per scovare i lati nascosti degli uomini. Con lo stesso spirito ci offre l’elemento naturale e animale concentrandosi su un punto di vista completamente nuovo: la natura non è quel simbolo di purezza che tutti credono, ma ha lo stesso profilo misterioso degli esseri umani.
I Processionari, il Pescatore di niente, Fictilia: ogni lavoro trasporta l’iconografia in un’ottica metaforica, paradigmatica. Quelle figure mettono in crisi i nostri valori con il sorriso sulle labbra (quando le hanno).
Jarry diceva dei personaggi di Ubu Roi che sono “quello che fa ridere i bambini e fa paura ai grandi”. Io credo valga anche in questo caso, forse perché nel gioco assurdo delle fusioni di Nino Ventura “i grandi” guardano con gli occhi del colpevole. Ossimori scultorei come deflagrazione del contrasto dei sentimenti.
Nino Ventura crea neologismi visivi e anziché contrarre le vocali, lega il cosmo dell’inventiva con l’universo della logica. È la crasi come visione e non come esercizio semantico, quella di cui è capace solo l’artista.
Questo mi attrae incredibilmente del lavoro di Nino Ventura: le sue creazioni sono localizzabili al confine tra due universi. Sono impulsive e instabili, ma allo stesso tempo molto concrete. Sono assurde e hanno una doppia faccia. È ovvio che quello del dualismo sia un concetto intrigante. Dell’aspetto duale si è occupata la psicologia, la filosofia, la neurologia e persino la matematica, oltre ad altre decine di discipline. Non parlo solamente dell’organismo che incontra la coscienza, del corpo che incontra l’anima, ma degli aspetti e delle moltitudini dell’essere umano che ne sanciscono la ricchezza. E a me piace pensare a tratti della personalità che tra loro ammiccano, si provocano, si eccitano, si sfidano e si affrontano, si corrodono, si affezionano, si convincono. A una prima visione le opere di Ventura rinunciano al contesto, lasciando spazio all’interpretazione inerente la nostra sfera più intima e facendo esplodere gli elementi più connaturati e contrastanti nella condizione umana: la sopraffazione e la bonarietà, l’odio e la tenerezza, la violenza e la sicurezza. Questo è l’ambito a disposizione dell’uomo, quello in cui la società contemporanea ci costringe a vivere sempre tesi, sul chi va là. Rothko diceva che i suoi quadri ritraggono una imminente esplosione, il momento che precede l’istante del disastro. Ecco a me gli eserciti di Nino Ventura sembrano essere lì pronti ad aggredirmi. Infatti, i suoi soggetti ci caricano di ansietà, di inquietudine, perché ci privano del comfort della padronanza di noi stessi. Creature dal sapore fiabesco, ma deformi e innaturali, che come tutte le cose che spaventano allo stesso tempo affascinano e contagiano, e ci spingono a ricercare una qualche somiglianza con noi stessi. Queste figure navigano in un limbo, ma sembrano venire da un posto ben definito. Sono il possibile contro il probabile, un universo che solo un artista può essere in grado di vedere e riportare. Allo stesso tempo, però, evocano un mondo antico riscoperto, le gesta eroiche di una civiltà che non c’è più. Damien Hirst in “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, mostra-evento che nel 2017 ha invaso le sale di Punta della Dogana e Palazzo Grassi a Venezia, ci ha parlato del ritrovamento dei tesori sommersi custoditi nel relitto di una nave immaginaria, con personaggi di un mondo scomparso che ritorna alla luce. Nino Ventura sembra avere intuito prima, e senza l’aura da fighetto di Hirst, che non solo il futuro ma anche il passato è immaginabile. Scriveva Leopardi: Torna al celeste raggio - Dopo l'antica obblivion l'estinta - Pompei, come sepolto- Scheletro, cui di terra - Avarizia o pietà rende all'aperto. Ecco che Nino Ventura allora crea una sorta di Pompei che si rigenera continuamente, che applica al passato le possibilità del divenire. Con sirene, angeli e arcangeli, pesci, soldati di ogni sorta ha costruito un universo che non conosce il tempo e che riesce a solcare il tracciato dell’ironia oltre a quello dell’inquietudine. Le sue opere sono pedoni o alfieri o regine di una scacchiera rimescolata e per dirla con Schopenhauer “nella vita accade come nel gioco degli scacchi: noi abbozziamo un piano, ma esso è condizionato da ciò che si compiacerà di fare nel gioco degli scacchi l'avversario, nella vita il destino”.
L’abilità tecnica di Nino Ventura, la sua conoscenza della terracotta e del bronzo, l’attenzione ai dettagli, sono sorprendenti. Non sono orgoglio di bellezza queste opere, ma scintille di visione che viaggiano sui binari del ribaltamento delle convenzioni, della dissoluzione del linguaggio, del grottesco come riflessione.
La figura non è solamente corpo, ma la materializzazione di uno spirito che arriva da una dimensione che fatichiamo a decifrare. L’esplosione della fantasia e delle individualità offre una lente di ingrandimento per scovare i lati nascosti degli uomini. Con lo stesso spirito ci offre l’elemento naturale e animale concentrandosi su un punto di vista completamente nuovo: la natura non è quel simbolo di purezza che tutti credono, ma ha lo stesso profilo misterioso degli esseri umani.
I Processionari, il Pescatore di niente, Fictilia: ogni lavoro trasporta l’iconografia in un’ottica metaforica, paradigmatica. Quelle figure mettono in crisi i nostri valori con il sorriso sulle labbra (quando le hanno).
Jarry diceva dei personaggi di Ubu Roi che sono “quello che fa ridere i bambini e fa paura ai grandi”. Io credo valga anche in questo caso, forse perché nel gioco assurdo delle fusioni di Nino Ventura “i grandi” guardano con gli occhi del colpevole. Ossimori scultorei come deflagrazione del contrasto dei sentimenti.
Nino Ventura crea neologismi visivi e anziché contrarre le vocali, lega il cosmo dell’inventiva con l’universo della logica. È la crasi come visione e non come esercizio semantico, quella di cui è capace solo l’artista.
Le creazioni, impulsive e instabili, ma allo stesso tempo molto concrete, sono assurde e hanno una doppia faccia, quasi come una maschera di teatro greco. Un concetto intrigante, di cui molte discipline scientifiche si sono fino ad oggi occupate: dalla psicologia, alla filosofia e neurologia fino alla matematica, così precisa, ma nello stesso tempo affascinante. Un gioco tra opposti, che si sfidano e affrontano, affezionano e ammiccano.
A una prima visione, le opere di Ventura rinunciano al contesto, lasciando spazio all’interpretazione inerente la nostra sfera più intima e facendo esplodere gli elementi più connaturati e contrastanti nella condizione umana: la sopraffazione e la bonarietà, l’odio e la tenerezza, la violenza e la sicurezza.
Queste figure navigano in un limbo, ma sembrano venire da un posto ben definito. Sono il possibile contro il probabile, un universo che solo un artista può essere in grado di vedere e riportare. Un’arte che comunica per ossimori, volta alla rigenerazione continua, come una Fenice che muore e risorge dalle proprie ceneri, applicandosi al passato e proiettata verso il futuro, in continuo divenire.
Allestimento della mostra dell'artista e scultore Nino Ventura "A occhi chiusi" presso il Forte di Gavi (AL)
Sirene, angeli, pesci e soldati sono i soggetti prediletti da Nino Ventura, che fino al 30 settembre il Forte dei Gavi ospiterà con una sezione antologica.
L’evento “Ad occhi chiusi”, realizzato dal polo Museale del Piemonte e con la Direzione del Forte di Gavi, in collaborazione con l’Associazione Amici del Forte di Gavi, ha dato l’avvio alla programmazione di mostre d’arte contemporanea per meglio valorizzare il territorio piemontese.
Questa mostra, raccoglie al suo interno sculture che appartengono a un universo immaginario, che solo un artista può essere in grado di immaginare, ed evocare un mondo antico attraverso gesta eroiche di una civiltà che non c’è più.
Allestimento della mostra dell'artista e scultore Nino Ventura "A occhi chiusi" presso il Forte di Gavi (AL)
L’abilità tecnica di Nino Ventura, la sua conoscenza di materiali naturali come la terracotta e il bronzo, l’attenzione ai dettagli, sono sorprendenti.
Queste opere, non sono manifestazione di bellezza, ma scintille di visione che viaggiano sui binari del ribaltamento delle convenzioni, della dissoluzione del linguaggio, del grottesco come riflessione.
La figura non è il corpo, ma la trasposizione materica di uno spirito che arriva da una dimensione difficile da decifrare e decodificare. L’esplosione della fantasia e delle individualità offre una lente di ingrandimento per scovare i lati nascosti degli uomini.
Con lo stesso spirito ci offre l’elemento naturale e animale concentrandosi su un punto di vista completamente nuovo: la natura non è quel simbolo di purezza che tutti credono, ma ha lo stesso profilo misterioso degli esseri umani. Nino Ventura crea neologismi visivi e anziché contrarre le vocali, lega il cosmo dell’inventiva con l’universo della logica.
Allestimento della mostra dell'artista e scultore Nino Ventura "A occhi chiusi" presso il Forte di Gavi (AL
Luglio 2018
Osservo dal basso la testa di una alta figura in terracotta: il viso é antico, sereno, concentrato, con gli occhi chiusi; sulla testa, come copricapo, una vecchia lattina arrugginita tenuta da una cinghietta in cuoio -sottogola, a mò di elmetto- a fianco della quale ne é attaccata un’altra, ma rivolta in avanti, con una lampadina dentro. Scendo con lo sguardo lungo il corpo stilizzato, modellato come una grande anfora rastremata verso l’alto, e questo gendarme (o forse sacerdote? La differenza é sfumata) reca sul petto dei fregi in oro a forma di pesce, riccamente decorati con decise incisioni. Sotto ancora, a lato, un pesce in oro a tecnica mista scende giù, passando sopra a una sorta di alta gonna che divide la metà inferiore della figura, di colore bruno distinto da quello naturale della materia, e corre fino a terra, alla parte più solidamente ampia della figura. La gonna funge da base e nasconde i piedi. Dietro la schiena, due grandi ali in metallo. Tutto é spesso, consistente, impreziosito da fregi e glifi: reminescenze di un alfabeto familiare, volutamente composto -per assonanza visiva- da grafie appartenenti alla nostra cultura mediterranea più antica. Citazioni, ricostruzioni, memorie, rielaborate variamente da una mano sensibile.
Estendo lo sguardo e comprendo di essere in piedi di fronte a uno dei nove Uomini Faro, che lo scultore chivassese Nino Ventura espone a Castellamonte, per la Mostra della Ceramica 2023, unitamente alla Tribù dei Leviti, opera composta da 9 personaggi e 12 vasi officinali in terracotta bianca.
Il progetto generale si intitola «Arrivano dal Mare» e vede impegnato l’Artista da diversi anni a Castellamonte e, il prossimo anno, anche in Spagna. Nella suggestiva cornice della Rotonda Antonelliana, possiamo quindi ammirare Gli Uomini Faro, e nella Fornace Pagliero l’installazione «La Tribù dei Leviti ed i vasi officinali». Scende la sera, le ombre degli Uomini Faro si allungano e si disperdono, ma le loro luci si accendono, illuminando la Rotonda e abbagliando, come nove lampare nel mare di notte, il pubblico posto di fronte a loro, in mezzo a loro. L’ esposizione, nella sua veste notturna, trasla verso altri meridiani, cambia visione: bellissimi, suggestivi, immobili, i Nove Uomini vanno oltre la nostra dimensione, controllano che nel mondo invisibile avvenga solo ciò che é Scritto; che possa riprendere il proprio viaggio chi si é perso. Essi presidiano il nostro mondo, silenti e potenti; lì da sempre, da prima dei tempi.
Vorrei tornare indietro e scrivervi dell’artista che, dopo essersi impegnato per anni nel teatro come autore, registra e attore, inizia a modellare la terra dal 1991. Nino Ventura rifugge da posizioni puramente concettuali e autoreferenziali, come dalla corrosiva chimera della replica seriale di un modello riuscito. Egli auspica che di fronte al proprio lavoro non risultino necessarie interpretazioni preliminari, distinguo, classificazioni: le opere devono parlare in modo diretto alla testa e al cuore e l’approfondimento deve, semmai, partire con spontanea impellenza, dopo. Ventura é materico, necessita di solidità. E non c’é nulla di più concreto della terra e dei riferimenti alle culture che ci appartengono per camminare su un terreno solido. Lo scultore arriva infatti da Acireale, ovvero da uno dei gioielli della civiltà mediterranea, cittadina ricca di arte e dedicata alla figura mitologica di Aci, ucciso da Polifemo per gelosia, essendo entrambi innamorati di Galatea. Sangue, terra, amore e gelosia: tinte forti e profonde. E manipolare la terra, riutilizzare gesti arcaici, toccare la materia con le mani, può far riemergere antiche sapienze, tornare indietro e comprendere, rivivere, ritrovarsi. E con la terra si possono, ad esempio, modellare i pesci, uno dei topoi portanti dei lavori di Ventura sin dall’ inizio della sua attività. Infatti, in greco ichthys -ovvero pesce– é un acronimo/acrostico di “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”, simbolo identitario della nascente fede cristiana, ma anche offerta del mare, vita dei pescatori, racconti della sera, vita e morte, cicli della Natura.
L’Autore sfiora appena le suggestioni del primitivismo ottocentesco, definendo e consolidando da subito un linguaggio del tutto personale, teso a ribaltare quella visione del mondo definito “primitivo”: in lui l ‘omaggio all’ arcaico non passa per la semplice rievocazione, la citazione, l’ imitazione; non vuole portare a casa souvenir di un mondo pulito e incontaminato, da preservare e da esporre presso le nostre case come trofei, a contrasto di una cultura contemporanea ormai corrotta e generatrice di disvalori (ci riferiamo ancora a parte del pensiero primitivista ottocentesco e alle critiche che già allora gli vennero mosse). L’arcaico, invece, é letto da Ventura come sedimentazione di valori positivi, legati all’ Uomo e alla creatività, radicati e presenti nel nostro quotidiano; qualcosa che ci appartiene e che é sufficiente illuminare, rievocare, immergere nell’acqua, per vederlo riprendere consistenza e vividamente riaffiorare, per poi rimodellarlo, reinventarlo. Questa memoria é plastica materia che mantiene fecondo il suo portato di umanità; non é nostalgica riesumazione, quindi, ma parte viva di noi.
Nelle opere dello Scultore é spesso presente l’oro, che riporta alla sacralità e ad ambiti regali e magici. La terra é utilizzata nelle sue diverse tonalità e poi, ove necessario, tinta. Sono presenti animali, a volte stilizzati o solo accennati. E c’é uno spazio importante, di fianco al sacro e all’arcaico, per il capriccio e la risata, lo sberleffo, l’abnorme, il complice ammiccamento. Entrambi concorrono a connotare la natura delle opere di Ventura. Ogni pezzo é diverso e ogni argomentare permette interpretazioni a più livelli. Ma, comune a ogni lavoro, é l’ entrare in risonanza con l’osservatore, non lasciare indifferenti. Ecco: la prima sensazione delle opere di Ventura, in particolare quelle che riproducono fattezze umane, é la comunicazione immediata. Esse ci portano un messaggio? Sì, silente: recano doni, decorazioni, bellezza e spirito. Civiltà. Pace. Gioco. Sono in qualche misura doppie, come detto: sono latrici di antiche saggezze e di moniti per il futuro, ma anche di lazzo, motto di spirito e capriccio (nel senso più alto, musicale, pittorico). Si presentano con abnormi piedi e mani, orecchie e preziosità, decorazioni e vestiari. Nino Ventura riesce nella difficile impresa di utilizzare materiale misto, sempre unito alla terra modellata e cotta, senza che vi sia qualcosa di forzato o di maniera: ogni corda, segno, legno, ferro, pulviscolo, sabbia, smalto sgargiante, é lì al proprio posto. Senza eccessi che sfruttino effetti riusciti. E’ un linguaggio con un metro, delle proporzioni, un equilibrio. Queste opere sono legate strettamente alla manualità: lavorare e poi cuocere la terra é arte assai difficile, anche se quasi infantile e istintiva nella prima fase della modellazione, mentre essa é avida di maestria nella cottura, soprattutto delle parti più grandi, nelle quali una piccola bolla d’aria, uno spessore sbagliato, possono portare, in cottura, a crepe esiziali. Le opere più alte, infatti, sono necessariamente realizzate sovrapponendo parti separate, ai limiti della grandezza permessa dai forni. Nino Ventura lavora con mano sicura di artigiano che sa di raccogliere una eredità antica, con il divertimento e la bellezza del piccolo gesto. L’arzigogolo in oro, in corda, in fil di ferro, e le parche autocitazioni rendono la sua opera ben riconoscibile, sebbene sempre varia. Il prendersi non troppo sul serio, essere ironico, é la sua cifra.
Le figure umane di Ventura hanno spesso le labbra socchiuse, appaiono permanentemente stupite, e forse vogliono sussurrarci qualcosa. E hanno gli occhi pudichi di chi osserva con rispetto e amore, dopo aver visto tutto. Occhi che sono sempre chiusi e questa é una costante dell’Artista: scrutano lontano anche per noi, vegliano e insegnano, ma non osservano con le pupille, bensì con lo sguardo della mente, perché non hanno necessità fisica di guardare; per non distrarsi e ferirsi, perché l’ oggi é destinato a passare e a volte non é degno di essere visto e ricordato perché doloroso, sbagliato, opaco, miope, disumano, brutto. Queste palpebre immobili, invece, ci portano la bellezza dell’esistenza, l’ importanza di essere umani nel divenire della Storia, raccogliendo l’eredità di una tradizione legata a innumerevoli generazioni, ad antiche filosofie, a simboli e astrazioni appartenenti al Mare Nostrum, raccolti tra i sassi delle nostre spiagge. Sono occhi chiusi che ci sorridono.
Questi nove uomini-luce sono un po’ sacerdoti e un po’ soldati (si diceva all’inizio dei cappelli: elmetti o copricapi rituali?) e ci portano un messaggio, un augurio. Osservano dal passato, immortali, noi e il nostro futuro. Hanno donato la loro presenza oggi, ma lo hanno fatto prima, altrove, e lo faranno ancora. Nino Ventura li ha sentiti nelle mani e ha dato loro un corpo: sono immoti argonauti ai quali é stata restituita forma nello spazio. Posti di fronte a loro, lasciamo che una goccia della nostra singolare esistenza superi la spessa materia che li compone e li penetri. E per un attimo, se c’é silenzio, pare di sentirli risuonare. Loro, comunque, ci attendono. Dietro le loro spalle, scrivevamo, ci sono due grandi ali di metallo. Perché, forse, i variopinti e fantastici personaggi di Ventura, prima che essere giocosi o seriosi sacerdoti e soldati, non sono altro che Angeli.
Le opere di Nino Ventura sono esposte permanentemente a Fuenlabrada (Madrid, la spettacolare grande fontana Liquidas Convergencias); nel Museo de los Angeles” a Turegano (Spagna, Castiglia Leon), di cui è ideatrice e direttrice Lucia Bosé (“Angeli, Evoluzione della specie”, 12 sculture in terracotta alte più di 2 metri, anno 2001), a Chivasso (Il XII Angelo nel Centro storico e il bassorilievo “Mediterraneo Terra Mia” nella Quintana del Cedro), nello showroom di piazza Castello a Verbania e, per le grandi sculture, presso la Pellegrini Art Gallery di Civitanova Marche.
DAVIDE FICCO
31 Agosto 2023
IL TORINESE - Cultura e Spettacoli
Estendo lo sguardo e comprendo di essere in piedi di fronte a uno dei nove Uomini Faro, che lo scultore chivassese Nino Ventura espone a Castellamonte, per la Mostra della Ceramica 2023, unitamente alla Tribù dei Leviti, opera composta da 9 personaggi e 12 vasi officinali in terracotta bianca.
Il progetto generale si intitola «Arrivano dal Mare» e vede impegnato l’Artista da diversi anni a Castellamonte e, il prossimo anno, anche in Spagna. Nella suggestiva cornice della Rotonda Antonelliana, possiamo quindi ammirare Gli Uomini Faro, e nella Fornace Pagliero l’installazione «La Tribù dei Leviti ed i vasi officinali». Scende la sera, le ombre degli Uomini Faro si allungano e si disperdono, ma le loro luci si accendono, illuminando la Rotonda e abbagliando, come nove lampare nel mare di notte, il pubblico posto di fronte a loro, in mezzo a loro. L’ esposizione, nella sua veste notturna, trasla verso altri meridiani, cambia visione: bellissimi, suggestivi, immobili, i Nove Uomini vanno oltre la nostra dimensione, controllano che nel mondo invisibile avvenga solo ciò che é Scritto; che possa riprendere il proprio viaggio chi si é perso. Essi presidiano il nostro mondo, silenti e potenti; lì da sempre, da prima dei tempi.
Vorrei tornare indietro e scrivervi dell’artista che, dopo essersi impegnato per anni nel teatro come autore, registra e attore, inizia a modellare la terra dal 1991. Nino Ventura rifugge da posizioni puramente concettuali e autoreferenziali, come dalla corrosiva chimera della replica seriale di un modello riuscito. Egli auspica che di fronte al proprio lavoro non risultino necessarie interpretazioni preliminari, distinguo, classificazioni: le opere devono parlare in modo diretto alla testa e al cuore e l’approfondimento deve, semmai, partire con spontanea impellenza, dopo. Ventura é materico, necessita di solidità. E non c’é nulla di più concreto della terra e dei riferimenti alle culture che ci appartengono per camminare su un terreno solido. Lo scultore arriva infatti da Acireale, ovvero da uno dei gioielli della civiltà mediterranea, cittadina ricca di arte e dedicata alla figura mitologica di Aci, ucciso da Polifemo per gelosia, essendo entrambi innamorati di Galatea. Sangue, terra, amore e gelosia: tinte forti e profonde. E manipolare la terra, riutilizzare gesti arcaici, toccare la materia con le mani, può far riemergere antiche sapienze, tornare indietro e comprendere, rivivere, ritrovarsi. E con la terra si possono, ad esempio, modellare i pesci, uno dei topoi portanti dei lavori di Ventura sin dall’ inizio della sua attività. Infatti, in greco ichthys -ovvero pesce– é un acronimo/acrostico di “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”, simbolo identitario della nascente fede cristiana, ma anche offerta del mare, vita dei pescatori, racconti della sera, vita e morte, cicli della Natura.
L’Autore sfiora appena le suggestioni del primitivismo ottocentesco, definendo e consolidando da subito un linguaggio del tutto personale, teso a ribaltare quella visione del mondo definito “primitivo”: in lui l ‘omaggio all’ arcaico non passa per la semplice rievocazione, la citazione, l’ imitazione; non vuole portare a casa souvenir di un mondo pulito e incontaminato, da preservare e da esporre presso le nostre case come trofei, a contrasto di una cultura contemporanea ormai corrotta e generatrice di disvalori (ci riferiamo ancora a parte del pensiero primitivista ottocentesco e alle critiche che già allora gli vennero mosse). L’arcaico, invece, é letto da Ventura come sedimentazione di valori positivi, legati all’ Uomo e alla creatività, radicati e presenti nel nostro quotidiano; qualcosa che ci appartiene e che é sufficiente illuminare, rievocare, immergere nell’acqua, per vederlo riprendere consistenza e vividamente riaffiorare, per poi rimodellarlo, reinventarlo. Questa memoria é plastica materia che mantiene fecondo il suo portato di umanità; non é nostalgica riesumazione, quindi, ma parte viva di noi.
Nelle opere dello Scultore é spesso presente l’oro, che riporta alla sacralità e ad ambiti regali e magici. La terra é utilizzata nelle sue diverse tonalità e poi, ove necessario, tinta. Sono presenti animali, a volte stilizzati o solo accennati. E c’é uno spazio importante, di fianco al sacro e all’arcaico, per il capriccio e la risata, lo sberleffo, l’abnorme, il complice ammiccamento. Entrambi concorrono a connotare la natura delle opere di Ventura. Ogni pezzo é diverso e ogni argomentare permette interpretazioni a più livelli. Ma, comune a ogni lavoro, é l’ entrare in risonanza con l’osservatore, non lasciare indifferenti. Ecco: la prima sensazione delle opere di Ventura, in particolare quelle che riproducono fattezze umane, é la comunicazione immediata. Esse ci portano un messaggio? Sì, silente: recano doni, decorazioni, bellezza e spirito. Civiltà. Pace. Gioco. Sono in qualche misura doppie, come detto: sono latrici di antiche saggezze e di moniti per il futuro, ma anche di lazzo, motto di spirito e capriccio (nel senso più alto, musicale, pittorico). Si presentano con abnormi piedi e mani, orecchie e preziosità, decorazioni e vestiari. Nino Ventura riesce nella difficile impresa di utilizzare materiale misto, sempre unito alla terra modellata e cotta, senza che vi sia qualcosa di forzato o di maniera: ogni corda, segno, legno, ferro, pulviscolo, sabbia, smalto sgargiante, é lì al proprio posto. Senza eccessi che sfruttino effetti riusciti. E’ un linguaggio con un metro, delle proporzioni, un equilibrio. Queste opere sono legate strettamente alla manualità: lavorare e poi cuocere la terra é arte assai difficile, anche se quasi infantile e istintiva nella prima fase della modellazione, mentre essa é avida di maestria nella cottura, soprattutto delle parti più grandi, nelle quali una piccola bolla d’aria, uno spessore sbagliato, possono portare, in cottura, a crepe esiziali. Le opere più alte, infatti, sono necessariamente realizzate sovrapponendo parti separate, ai limiti della grandezza permessa dai forni. Nino Ventura lavora con mano sicura di artigiano che sa di raccogliere una eredità antica, con il divertimento e la bellezza del piccolo gesto. L’arzigogolo in oro, in corda, in fil di ferro, e le parche autocitazioni rendono la sua opera ben riconoscibile, sebbene sempre varia. Il prendersi non troppo sul serio, essere ironico, é la sua cifra.
Le figure umane di Ventura hanno spesso le labbra socchiuse, appaiono permanentemente stupite, e forse vogliono sussurrarci qualcosa. E hanno gli occhi pudichi di chi osserva con rispetto e amore, dopo aver visto tutto. Occhi che sono sempre chiusi e questa é una costante dell’Artista: scrutano lontano anche per noi, vegliano e insegnano, ma non osservano con le pupille, bensì con lo sguardo della mente, perché non hanno necessità fisica di guardare; per non distrarsi e ferirsi, perché l’ oggi é destinato a passare e a volte non é degno di essere visto e ricordato perché doloroso, sbagliato, opaco, miope, disumano, brutto. Queste palpebre immobili, invece, ci portano la bellezza dell’esistenza, l’ importanza di essere umani nel divenire della Storia, raccogliendo l’eredità di una tradizione legata a innumerevoli generazioni, ad antiche filosofie, a simboli e astrazioni appartenenti al Mare Nostrum, raccolti tra i sassi delle nostre spiagge. Sono occhi chiusi che ci sorridono.
Questi nove uomini-luce sono un po’ sacerdoti e un po’ soldati (si diceva all’inizio dei cappelli: elmetti o copricapi rituali?) e ci portano un messaggio, un augurio. Osservano dal passato, immortali, noi e il nostro futuro. Hanno donato la loro presenza oggi, ma lo hanno fatto prima, altrove, e lo faranno ancora. Nino Ventura li ha sentiti nelle mani e ha dato loro un corpo: sono immoti argonauti ai quali é stata restituita forma nello spazio. Posti di fronte a loro, lasciamo che una goccia della nostra singolare esistenza superi la spessa materia che li compone e li penetri. E per un attimo, se c’é silenzio, pare di sentirli risuonare. Loro, comunque, ci attendono. Dietro le loro spalle, scrivevamo, ci sono due grandi ali di metallo. Perché, forse, i variopinti e fantastici personaggi di Ventura, prima che essere giocosi o seriosi sacerdoti e soldati, non sono altro che Angeli.
Le opere di Nino Ventura sono esposte permanentemente a Fuenlabrada (Madrid, la spettacolare grande fontana Liquidas Convergencias); nel Museo de los Angeles” a Turegano (Spagna, Castiglia Leon), di cui è ideatrice e direttrice Lucia Bosé (“Angeli, Evoluzione della specie”, 12 sculture in terracotta alte più di 2 metri, anno 2001), a Chivasso (Il XII Angelo nel Centro storico e il bassorilievo “Mediterraneo Terra Mia” nella Quintana del Cedro), nello showroom di piazza Castello a Verbania e, per le grandi sculture, presso la Pellegrini Art Gallery di Civitanova Marche.
DAVIDE FICCO
31 Agosto 2023
IL TORINESE - Cultura e Spettacoli